È SEMPLICEMENTE DONALD
di Valerio Benedetti
Parliamoci chiaro: il quadriennio di Donald Trump alla Casa Bianca non è stato esaltante. La stretta sulle politiche migratorie ha funzionato solo a metà, le roccaforti del potere globalista sono rimaste al loro posto, l'Alt-Right si è frantumata in mille rivoli e Steve Bannon, che voleva essere il «Soros sovranista», si è rivelato poco più di un mediocre commediante. Senza contare la gestione dilettantesca del Covid-19: quando Trump ha consigliato l’uso di disinfettante e candeggina per combattere il coronavirus, tutti hanno avuto l'impressione che si fosse davvero toccato il fondo.
Insomma, il «Dio imperatore» non è stato all’altezza delle promesse che aveva fatto e delle aspettative che aveva generato. Eppure, nonostante tutto, per milioni di americani «The Donald» rimane comunque l’ultimo baluardo a difesa dei «piccoli bianchi», del forgotten man a stelle e strisce. Cioè gli «sconfitti della globalizzazione», i «deplorevoli» (Hillary Clinton dixit). Sono quelli che non hanno un colore della pelle che garantisce diritti e tutele, quelli che sono stati investiti dalla deindustrializzazione del Paese, quelli che vengono continuamente additati come «razzisti», «xenofobi» e persino «privilegiati». Anche se vengono bistrattati da tutti. Anche se dormono nei fossi.
Le proteste di Black lives matter — sostenute dai media anche quando si facevano violente e criminali — hanno preso di mira soprattutto lui: Trump il «suprematista bianco», Trump il campione del white trash ignorante e populista.
Per evitare la riconferma del presidente alla Casa Bianca, sono scesi in campo anche i padreterni dei social media: sia Facebook che Twitter non hanno perso occasione per attaccare e censurare «The Donald», colpevole — a loro dire — di diffondere fake news, e cioè di non condividere la visione del mondo «inclusiva» e zuccherosa che tanto piace in Silicon Valley.
— | Per farla breve, Trump è riuscito a mettersi contro tutti. Tutti quelli contano, perlomeno. E questo vorrà pur dire qualcosa. Certo, il tycoon newyorchese non ha fatto nulla per sfidare davvero lo strapotere dei globalisti: non ha fondato alcun network d’informazione, alcun canale televisivo o casa di produzione cinematografica alternativa. Eppure i soldi e le conoscenze li aveva. E invece, a quattro anni di distanza, la sua potenza di fuoco è rimasta sostanzialmente la stessa. Un grave errore, su questo non ci sono dubbi.
Sia come sia, piaccia o non piaccia, Trump è però diventato un simbolo. Un simbolo capace come pochi altri di polarizzare gli schieramenti. Per i globalisti è il male assoluto, una specie di avatar del fascismo» sempre risorgente, un Adolf Hitler con il ciuffo biondo. Per i suoi sostenitori, invece, è diventato una sorta di messia salvatore, una felice anomalia nel decrepito mondo dei repubblicani, dei cuckservative, cioè dei conservatori «cornuti» che si sono arresi al nemico. Nell’immaginario dei trumpiani, in altre parole, il presidente Usa è ormai assurto al kazechon biblico che ritarda la vittoria finale del globalismo trionfante.
Ovviamente, si tratta di due narrazioni unilaterali e intrise di quel messianismo escatologico che tanto piace agli americani, imbevuti come sono — nonostante tutto — di morale puritana e veterotestamentaria. Ma il dato rimane: se c'è qualcuno che si è opposto con forza ai globalisti, quello è stato proprio Trump. Che infatti è riuscito a ridestare, mobilitandoli, i tanti elettori repubblicani annichiliti da otto anni di tirannia obamiana.
Se a noi tutto questo può interessare relativamente, a livello geopolitico Trump è però stato indubbiamente una manna dal cielo. Se si eccettuano alcune porcate — come ilvile assassinio di Soleimani — l’attuale amministrazione ha tenuto fede alla promessa di non intervenire militarmente a destra e a manca per «esportare la democrazia», come ha fatto ripetutamente Obama e come intendeva fare Hillary, la cui risata inquietante in diretta tv per la morte di Gheddafi non faceva presagire nulla di buono.
Insomma, gli amici di QAnon e i trumpiani di casa nostra non si facciano illusioni: dovesse anche essere riconfermato, «The Donald» non farà alcuna rivoluzione. Non ne ha gli strumenti e, forse, neanche la volontà. Il suo sarà solo un interregno che, probabilmente, non lascerà alcuna traccia dietro di sé. L’unica cosa che si può sperare da queste presidenziali è di vedere un’altra volta i Zidera/ versare lacrime amare, come bambini a cui è stato tolto il giocattolo.
Questo, in effetti, sarebbe davvero impagabile. E allora vai, Donald, make liberals cry again. Falli piangere ancora.
PN