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Vivo di parole ma in carcere mi salvò la matematica

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CULTURA


PIERGIORGIO ODIFREDDI
Intervista a Wole Soyinka, l’autore nigeriano premiato per la letteratura “La creatività non è solo nell’arte”
Wole Soyinka è un attivista e scrittore nigeriano educato in Inghilterra negli anni ‘50, detenuto politico in Nigeria negli anni ‘60, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1986, esule e condannato a morte in contumacia negli anni ‘90, e professore di letteratura in molte università inglesi e statunitensi. È stato invitato al meeting interdisciplinare dei premi Nobel scientifici di Lindau nel 2015, dove ha tenuto un potente discorso contro l’attacco alla cultura perpetrato nel suo paese dagli estremisti islamici di Boko Haram. Ma accetta di parlare anche di matematica e scienza: «A scuola la matematica la odiavo, non solo l’algebra e la trigonometria, ma anche la semplice aritmetica. Per la maturità però dovevo passare le prove
di inglese e di matematica, e quando stavo ripassando per l’esame mi accorsi che ero completamente indietro nella seconda. Stavo in collegio, e per poter studiare di notte ho dovuto passare molte ore nei bagni per avere la luce. Non riuscii a rimediare in aritmetica e algebra, ma in geometria sì, e mi salvò».
Perché proprio la geometria?
«Perché mi sono sempre piaciute le forme e le curve. C’è qualcosa di estetico, di meraviglioso in esse».
E il suo rapporto con la matematica finì allora?
«Io credevo di sì, e infatti buttai subito tutti i libri dalla finestra. Ma poi sono finito in prigione per ventisette mesi, ventidue dei quali in isolamento. Non mi era permesso né leggere, né scrivere: riuscivo al massimo a sottrarre un po’ di carta igienica, e a scribacchiare qualche verso con i fiammiferi usati. Ma avevo pavimenti e pareti su cui incidere con bastoni o pietre, e la matematica mi tornò in mente. Cercai di ricordarmi i teoremi e le equazioni che avevo studiato, e questo mi aiutò a passare una buona parte del tempo».
Si ricorda qualcosa, in particolare, di
ciò che la impegnò?
«Sì, la combinatoria: calcolare il numero delle permutazioni, o delle disposizioni con o senza ripetizione, di un certo numero di oggetti. Sapevo che c’erano formule per queste cose, ma non le avevo mai imparate, e dovetti ritrovarle per conto mio. Feci degli inchiostri colorati con le foglie o il caffè, disegnai quadratini variopinti sui muri, e a forza di tentativi ed errori raggiunsi l’obiettivo. È difficile immaginare come ci si può sentire, da soli, in un’intera ala di una prigione che è stata evacuata per far posto a un’unica persona. Bisogna far passare il tempo, e nemmeno la combinatoria poteva bastare. Infatti, dopo averla esaurita mi imbattei in un’equazione che a pelle sentivo essere sbagliata, ma alla quale mi affezionai per la sua bellezza. Persi giorni e giorni nel tentativo di dimostrarla, ma non arrivai da nessuna parte, ovviamente».
E dimenticò tutto quando uscì di prigione?
«Esattamente come a scuola. Ma quando andai negli Stati Uniti fui ospitato a Pittsburgh da un’organizzazione che offre case agli scrittori rifugiati, decorate in vari modi con scritte e opere d’arte. A me ne assegnarono una che poi divenne nota come Casa delle Permutazioni, perché sulla sua porta a vetri io scrissi appunto in trasparenza la storia che le ho appena raccontato, e che ho anche riportato nelle mie memorie di prigionia L’uomo è morto (Jaca Book, 1986)».
Qualcuno invece, per sopravvivere all’isolamento, gioca a scacchi da solo.
«Certo, è successo anche a me, perché in isolamento vengono un sacco di idee strane. Ho costruito i pezzi col materiale che avevo a disposizione, e mi sono messo a giocare con me stesso».
Cosa pensa invece dei legami tra matematica e letteratura?
«La letteratura è molto più intuitiva. Ma l’intuizione, il flash, è fondamentale anche nella matematica. Forse quello è il loro punto d’incontro, ed è ciò che mi affascina del libro di Arthur Koestler L’atto della creazione (Astrolabio, 1975), in cui si stabiliscono appunto paralleli tra i processi creativi nelle scienze e nelle arti».
Cosa pensa di quegli scrittori che usano metafore o strutture matematiche nei loro romanzi?
«Ad esempio? ».
Ad esempio, la metafora matematica di “Guerra e pace” è che la storia non è fatta da pochi individui isolati, come Napoleone o lo zar, ma dall’azione congiunta di molti individui infinitesimi, che bisogna “integrare” come nel calcolo infinitesimale.
«Il pericolo di questa visione è che trattare l’umanità come una statistica porta direttamente ai regimi totalitari. Considerando l’uomo come una variabile statistica, si finisce per non prestare più nessuna attenzione alle sue componenti individuali. ».
Ampliando il discorso oltre la matematica, nella scienza si trova qualcosa che lei ha usato nel suo lavoro?
«Ho letto alcune critiche che dicono che nei miei libri si trova effettivamente un uso di termini scientifici specifici, che devo aver ritenuto dai tempi della scuola, anche se non sono conscio di usarli deliberatamente. Forse, nel tentativo di descrivere le emozioni degli esseri umani e le loro reciproche relazioni, mi viene spontaneo adottare una terminologia anatomica, biologica, o addirittura astronomica. Ad esempio, ci sono paralleli tra le emozioni degli uomini e i moti dei corpi celesti, come le stelle o le galassie. E la mia scrittura risente del fascino che provo per l’astronomia. Una volta a San Diego ho provato la sensazione dell’assenza di gravità, quando mi hanno regalato un volo sul Vomit Comet della Nasa (un’esperienza in assenza di gravità) per il mio settantacinquesimo compleanno».
E com’è stato?
«Ero con dei chiassosi americani che hanno continuato a gridare sovraeccitati per tutto il tempo, mentre io avrei voluto essere nel silenzio assoluto che associo allo spazio vuoto. Ma è stato sublime quando una delle partecipanti si è messa nella posizione yoga del loto, e bastava un minimo tocco per farla fluttuare senza peso in qualunque direzione. Come le parole di una poesia».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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