CRONACA
IL COMMENTO
ROBERTO SAVIANO
La storia di Karim Franceschiè una storia che sembra arrivare da lontanissimo. Un giovane che vede un popolo violato da una forza feroce e oscurantista e non vuole essere solo un osservatore. Non ha alcuna qualifica militare, ma parte lo stesso. Vuole combattere. Non sa sparare, non conosce il curdo, l’inglese gli è inutile. Non ha idea di cosa farà: ma vuole andare. Essere giovani e trovare disgustosa l’immobilità, codardo il continuare a vivere comodamente la propria vita mentre non molto lontano avvengono scempi e barbarie: l’odore di questa storia è identico a quello che assapori in decine di libri di giovani volontari che si scelgono una causa e vanno a combattere. Sento l’odore di Omaggio alla Catalogna, quando Orwell racconta di come raggiunse la Spagna nel ’36 per combattere con i miliziani trotzkisti del fronte repubblicano.
«Avevo un po’ di spirito di avventura, questo credo sia naturale — dice Karim — ma non ho fatto per quello la scelta di andare a combattere. La vera motivazione era partecipare alla resistenza di Kobane che stava per crollare: l’ho visto con i miei occhi».Gli parlo via Skype mentre è in Iraq. È calmo, ha molto più controllo di quello che ti immagini possa avere un ragazzo di 26 anni sbattuto da mesi su un fronte di guerra. Karim si è fatto l’addestramento assieme a gruppi di ragazzine di sedici anni. È diventato un cecchino, un soldato dell’Ypg, la milizia curda di Kobane. Nome di battaglia: Marcello. Ma come hanno fatto i curdi a fidarsi di un ragazzo di Senigallia? È figlio di mamma marocchina e padre partigiano, ma non è questo che li ha convinti. «Si sono fidati perché non era la prima volta che andavo in quelle zone, e sanno che militavo nei centri sociali». Karim si accorge che la risposta mi sorprende e mi fa una battuta: «quando hai scritto che ti lamentavi che alla manifestazione di Napoli c’erano le solite vecchie facce del radicalismo non hai visto la mia che era nuova invece! ».
Mi fa sorridere, ha un candore da ragazzino ma una determinazione molto matura. Non sta giocando alla guerra, è un soldato consapevole di ogni singolo passaggio di questa sua nuova vita: «Potevo combattere con l’Fsa (Free Syrian Army) ma ho scelto l’Ypg, le Unità di protezione del popolo. Perché ha i valori della Costituzione italiana, ha ideali di giustizia in cui mi riconosco, combatto con i compagni che difendono la democrazia, il secolarismo, il femminismo. Con l’Is alle porte si sono organizzati non solo per difendersi ma anche per costruire una società diversa». Gli chiedo: «Con i curdi dell’Ypg sei quindi in totale accordo?». «Devi dire solo Ypg, non chiamarli curdi», mi risponde. «Non sono nazionalisti, non vogliono uno Stato curdo, lottano, lottiamo per un confederalismo democratico. Puntiamo alle autonomie regionali, alla democrazia diretta popolare basata su comitati di villaggi, comitati delle donne». Insomma siamo di fronte ad un’organizzazione più vicina allo zapatismo che al Pkk (di cui l’Ypg è comunque alleato).
Le domande che ronzano in testa a chiunque incontra sono due: «Perché lo fai?». La risposta sembra quella di un ragazzo del secolo scorso: «Non per soldi, sia chiaro: vado e torno a mie spese, non prendo una lira. No, lo faccio per ideologia: i valori socialisti sono i miei valori, io sono comunista. Mio padre ha fatto la resistenza» (infatti il padre, come Karim ha raccontato in un’intervista a Fabio Tonacci su Repubblica, era stato un partigiano). Ma come può un ragazzo italiano che aveva sparato solo nei videogiochi, la cui vita non era stata traumatizzata da attentati, guerre, vendette, divenire un soldato in un realtà totalmente diversa dalla sua? Come può uccidere? Cosa prova? Questa è l’altra domanda che Karim si aspetta sempre. Ha imparato a rispondere con una citazione: «Quando un nazista finisce nel mio mirino so che non ucciderà il ragazzino che ho visto sul ponte stamattina».
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Nella foto, Roberto Saviano