di Mario Rusciano
Il «salario minimo legale» e il nuovo cavallo di battaglia del «governo del cambiamento».O meglio: di una parte di esso (il M55), secondo la prassi seguita dai due sottoscrittori del «contratto di governo». Da buoni separati in casa, ciascuno si coltiva il proprio orticello e l'uno non invade la coltivazione dell'altro. In caso di orticello comune e di probabili litigi condominiali, fingono di risolverli con la formuletta «salvo intese», cioé rinviando ogni decisione a non si sa quali tempi migliori. Entrambi in teoria non ignorano che il lavoro è il problema più grave dell'Italia, specie del nostro Mezzogiorno, ma di fatto del lavoro si occupa soltanto Di Maio, che ne e il ministro.
Certo, dovendo a suo tempo concludere in fretta il contratto di governo, essi non hanno mai affrontato l'enorme complessità del problema, trincerandosi dietro la generica e incomprensibile motivazione per la quale, nell'era postideologica in cui viviamo, non servono le chiacchiere (cioè le idee) e contano solo i fatti concreti. Tra i quali non da ora un fatto vero, sicuramente popolare e di grande risonanza mediatica, È quello, in generale, dei bassi salari (affrontato da Renzi con la bizzarra trovata degli ottanta euro) e, in particolare, dello sfruttamento del lavoro a poco prezzo o addirittura del lavoro nero (piaga del Sud). Di Maio coglie al volo un progetto corrente - peraltro realizzato in vari paesi europei, ma con ordinamento differente - del salario minimo legale e ne fa il primo punto della voce «lavoro» (n. 11,) nel contratto di governo.
Non si accorge però di dare prova di scarsa esperienza e di conoscenza superficiale della materia. Perché e vero che in Italia non c”è l'istituto del «salario legale», ma e altrettanto vero che c'è comunque la garanzia del «salario minimo»: previsto o dai contratti nazionali - come sanno tutti e
mostra di sapere anche Di Maio nel suo disegno - oppure, come invece pochi sanno, È riconosciuto dal giudice del lavoro in base all'art. 36 della Costituzione (co.1). Infatti (grosso modo, fin dal 1950) il giudice, su ricorso del lavoratore non tutelato dal contratto collettivo, non fa altro che attribuirgli la paga sindacale (prevista da quel contratto), che il datore di lavoro ingiustamente gli nega. C'è differenza tra il salario stabilito dalla legge e il salario stabilito dal giudice? In pratica non c'è differenza sostanziale, ma solo differenza formale. Se infatti il datore decidesse comunque di non corrispondere al lavoratore il salario legale, dovrebbe pur sempre essere il giudice a riconoscerglielo con sentenza. In altri termini, neppure il salario legale è automatico. Sicchè soprattutto nel mezzogiorno - dov'è più diffuso il lavoro sottopagato e il lavoro nero - e molto probabile che l'esistenza di un salario minimo legale non faccia né caldo né freddo un datore abituato a evadere le
leggi e a maltrattare il lavoratore: il quale sarebbe comunque costretto a ricorrere al giudice.
Il problema di eque retribuzioni dei lavoratori richiede una soluzione strutturale senza dubbio difficile - ma ovviamente adatta a un governo che si autodefinisce «del cambiamento» - consistente in due misure ineludibili.
(A) La prima e la legge sindacale di attuazione della parte non ancora attuata dell'art. 39 Cost., ove si prevede democrazia e rappresentanza unitaria dei sindacati per l'efficacia generalizzata dei contratti collettivi nazionali. (b) La seconda e il rafforzamento degli Ispettorati del lavoro.
(A) I contratti collettivi nazionali con efficacia erga omnes sono, per Costituzione, uno strumento necessario di regolazione dei rapporti di lavoro: servono ad assicurare la generale eguaglianza dei trattamenti economici e normativi ai lavoratori di una stessa categoria (mentre i contratti aziendali servono a fissare aumenti salariali di produttività e altri istituti nelle specifiche diverse realtà aziendali).
(B) Gli Ispettorati del lavoro - non a caso definiti «polizia del lavoro» - hanno il potere istituzionale di una costante e rigorosa vigilanza sul rispetto da parte del singolo imprenditore, della legislazione del lavoro e dei contratti colletti vi, onde contrastare efficace mente il lavoro nero o irregolare e, per quanto possibile, ridurre la gravita del problema, tragicamente quotidiane degli infortuni sul lavoro e
delle malattie professionali.
Dal punto di vista giuridico sono queste le uniche due misure, assieme alla fondamentale riforma della giustizia, in grado di mettere ordine nel mondo del lavoro e di alleggerire l'i1npegn0 del legislatore nella delicata disciplina delle condizioni dei lavoratori. Disciplina che la Costituzione vuole affidata all'autonomia collettiva delle parti sociali, a patto che il legislatore riconosca e valorizzi il ruolo della rappresentanza sindacale!
Questo è il punto: si tratta di misure bisognose di una forte volontà politica e di una salda fiducia nell'apporto che alla democrazia rappresentativa può dare il pluralismo sociale dei corpi intermedi, specie dei sindacati. I quali pare che domani debbano avere un incontro col Governo: speriamo positivo, ma con un po' di scetticismo.
C'è infatti da chiedersi se misure del genere possano mai essere prese da un M5S, che non crede nella democrazia rappresentativa e nei corpi intermedi, bensì in una fantomatica democrazia digitale; e da una Lega, che ogni giorno di più pare credere soltanto nell'autorità muscolare del Capitano. Eppure i rispettivi leader hanno prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica e di leale osservanza della sua Costituzione e delle sue leggi. Ma ciò quanto conta per loro?