LA LETTERA
di Giulio Tremonti
Caro direttore,
dopo aver sentito in questi ultimi giorni numerose e varie dichiarazioni politiche sui «numeri» del nostro Prodotto interno lordo e, dopo aver letto con grande interesse quanto scritto ieri al Corriere della Sera dal senatore Matteo Renzi («ecco perché non ho sbagliato, lo dicono i numeri») mi permetto di notare quanto segue.
La ragione — la ragione per cui valgono solo i meccanismi causa-effetto — non può cedere il campo alla magia od alla superstizione paramedievale: «Post hoc, ergo propter hoc» ovvero «il sole è sorto perché io mi sono svegliato» (e si è spento quando sono uscito di scena).
Iosif Vissarionovic Dzugasvili — detto Stalin — uomo a cui da tutti veniva riconosciuto un molto elevato grado di forza politica, mai comunque — risulta — iscrisse a proprio merito l’andamento dell’economia sovietica, piuttosto collegandolo — nel bene o nel male — agli eroici sforzi della classe operaia o in opposta alternativa all’inclemenza delle stagioni.
È certo vero che nelle fasi di passaggio da un governo all’altro si pone, e credo fisiologicamente, il problema dei «numeri» lasciati al governo nuovo dal governo vecchio.
Un problema di questo tipo — ricordo — si pose nel maggio del 2001: il nuovo governo ereditava il rischio (più che un rischio) di un «buco» di bilancio perché, come previsto dalla legge Finanziaria fatta nel 2000 per il 2001 dal precedente governo, si sarebbero dovuti realizzare entro dicembre e dunque in soli sei mesi vendite di immobili pubblici per un iperbolico totale pari a 8.000 miliardi di lire. Senza, l’Italia sarebbe stata colpita dalla allora terribile «procedura» europea.
Non fu dunque scorretto — credo — dichiarare tutto questo in TV, e fu necessario un decreto che determinasse uno speciale regime di proprietà degli immobili pubblici e su questa base l’applicazione necessaria per forza maggiore delle cosiddette «cartolarizzazioni».
L’effetto del governo
Ho sempre detto, e ne sono convinto, che i governi, pur volendolo, non possono fare molto bene all’economia
Da allora sono passati quasi due decenni e la struttura del mondo e dell’economia è radicalmente cambiata, prima con la progressiva estensione della globalizzazione e poi con la sua crisi.
Nel tempo presente e certo in Europa il potere dei governi nazionali — dei governi degli Stati nazione — è verticalmente calato: la dimensione dei problemi che dovrebbero essere governati ne sovrasta la forza, problemi che vengono da fuori — dal mercato finanziario internazionale e dagli altri continenti — o dal futuro — la marcia finora trionfale dei robot, delle macchine «ruba-lavoro» e «ruba-pensiero».
La caduta delle grandi ideologie politiche del ‘900 rende meno comprensibile ed efficace l’azione dei governi senza che la rete — dove pure si sperimentano grottesche forme di democrazia popolare al tempo di internet — possa sostituirle.
Infine — in Europa — siamo al termine dell’età dei debiti pubblici usati per acquisire il consenso o ridurre il dissenso popolare. Per tutto quanto sopra oggi mi sembrano davvero pittoresche le dichiarazioni «politiche» fatte sul nostro Prodotto interno lordo come se questo dipendesse dalla «politica» e non dai consumatori e dai produttori, dai lavoratori e dagli imprenditori, da quanto accade in un mondo che va oltre i nostri confini e con il quale siamo comunque collegati.
Per quanto mi riguarda ho sempre detto e scritto — e ne sono ancora convinto — che i governi, pur volendolo, non possono fare molto bene all’economia.
Piuttosto, magari anche non volendolo, possono farle molto male.