1/12/2018
ECONOMIA
Il retroscena
Tra promesse e realtà
ANNALISA CUZZOCREA,
ROMA
Il tabù del 2,4 per cento di rapporto deficit/Pil è caduto per sempre. Sostituito da numeri che vengono evocati, sul tavolo della trattativa con l’Europa, solo per scendere ancora: 2,2 per cento, quindi 3,4 miliardi di spesa in meno nella legge di Bilancio; 2,1, che equivarrebbe a tagliarne fino a 5; o addirittura 2 per cento. Sette miliardi in meno per la «manovra del popolo», hashtag tanto riuscito quanto messo in pericolo dal fuoco incrociato di Europa e mercati. Quel 2,4 per cento di deficit scritto nel Documento di programmazione economica e finanziaria del governo gialloverde, numero magico che aveva portato Luigi Di Maio a festeggiare sul balcone di Palazzo Chigi la possibilità di mantenere la sua prima promessa elettorale, non lo difende più nessuno.
Non lo fa il premier Giuseppe Conte, impegnato a Buenos Aires in una continua trattativa con i vertici europei. Non lo fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini, il primo a derubricarlo a questione laterale. E non lo fa ora nemmeno il capo politico M5S, che continua a dire: «Daremo 780 euro a tutti coloro cui lo abbiamo promesso, lo faremo entro marzo, abbiamo già scritto il decreto», ma sta tentando in ogni modo di capire come fare senza tutto quel deficit.
Nessuno più racconta quel che una settimana fa, uscendo dalla Camera, diceva la sottosegretaria M5S all’Economia Laura Castelli: «La procedura di infrazione da parte dell’Europa non sarà un problema, ci vorranno tre anni prima di sentirne gli effetti e a quel punto avremo risolto». L’era della responsabilità sembrerebbe - il condizionale è d’obbligo - aver preso il posto della propaganda anti-Bruxelles. «Prima di parlare di numeri però — conferma una fonte di governo — dobbiamo capire i termini precisi della trattativa. Se per la commissione europea sono sufficienti i 3,6 miliardi che potremmo tagliare abbastanza facilmente, se vuole farci arrivare al 2,1 o addirittura al 2 per cento. Nessuna decisione sarà presa finché Conte non sarà tornato e non conosceremo bene le condizioni per un accordo.
Soprattutto, nulla avverrà finché non ci sarà un incontro con Di Maio e Salvini».
I due alleati di governo hanno entrambi molto da perdere, dalla «rimodulazione» della manovra promessa all’Europa. Ma i 5 Stelle di più. Di Maio, indebolito dalle polemiche sugli affari di famiglia, infiacchito da sondaggi sempre più grigi e da un dissenso interno che cresce all’interno del Movimento, ha bisogno di soldi per mantenere ogni promessa fatta. Gli servono per le difficili vertenze in corso al ministero dello Sviluppo; gli mancano per quel reddito di cittadinanza che gli ha fatto fare il pieno di voti, ma su cui buona parte dell’elettorato lo aspetta al varco. A Salvini invece è bastato imporre la linea leghista su sicurezza e immigrazione, ammesso che incassi anche la legge sulla legittima difesa sulla quale sono in vista nuove fibrillazioni, per vedere il suo consenso salire.
È per questo che fonti di Palazzo Chigi ieri sera si sono affrettate a smentire qualsiasi ipotesi di un rinvio a giugno delle misure più costose della manovra di Bilancio, che sono per l’appunto i due provvedimenti simbolo: reddito di cittadinanza e quota 100.
Giugno significa due mesi dopo le elezioni europee; per i 5 Stelle è davvero troppo tardi. E nonostante Salvini abbia parlato di “primavera” spingendo più in là una data che il vicepremier alleato e rivale aveva ancorato a febbraio, il fattore tempo è l’unico che Di Maio non può davvero toccare. I tecnici di via XX settembre hanno detto chiaramente che per scendere al 2% di deficit non c’è alternativa: taglio della Fornero e reddito vanno rimandati alla seconda metà dell’anno. Il Movimento ribatte, a taccuini chiusi, che Tria sta lavorando ad altre ipotesi di risparmio; che a Bruxelles sarà offerta come prima mossa lo spostamento delle spese per investimenti sulle emergenze del territorio, tenute fuori dal patto di stabilità; che da quota 100 si aspettano forti risparmi, perché nel primo anno «tirerà poco», opzione donna vale un anno solo, i disincentivi saranno parecchi, a partire dal divieto di cumulo per alcune categorie. Quel che è certo è che il Carroccio non accetterà di abbassare il suo saldo sulla riforma delle pensioni (7 miliardi) senza toccare i 9 del reddito di cittadinanza: «Forse ci siamo tenuti larghi, forse, con tutti i paletti che abbiamo messo, un miliardo lo recuperiamo», ammette una fonte vicina al leader M5S. Ma è presto per qualsiasi ammissione ufficiale: la trattativa è appena iniziata.