24/11/2018
COMMENTI
L’editoriale
Mario Calabresi
Lo spirito del tempo non finisce mai di stupire e, francamente, di farci inorridire. Siamo passati da “aiutiamoli a casa loro” a “aiutiamo i nostri a casa nostra”. Peccato che a dirlo sia sempre chi non si è mai particolarmente distinto per impegno e aiuto, in nessuna casa, italiana o straniera che fosse, con nessuno, italiano o straniero che fosse.
Così adesso i volontari sono da guardare con sospetto, da mettere all’indice o perlomeno da sopportare con una scrollata di spalle.
Ma non solo loro, anche tutti quelli che professionalmente si dedicano all’assistenza in zone arretrate e hanno la colpa di mettere in gioco la propria vita e la propria sicurezza.
Purtroppo la povertà e il bisogno sono fortemente legati a malattie, carestie e guerre. Non ho mai sentito nessuno che avesse la necessità di accorrere in aiuto degli abitanti del lago di Ginevra, di Park Avenue a Manhattan o del quadrilatero della moda a Milano.
Poi ci si indigna perché si spenderebbero soldi per andare a salvare Silvia Romano, obiezione che non viene mai sollevata quando i denari pubblici si usano per soccorrere escursionisti, velisti, automobilisti, turisti intrappolati in una grotta o in un canyon.
La verità è che a dare fastidio sono i buoni esempi, che hanno il difetto di ricordarci che non tutto è marcio, corrotto e schifoso, che non è obbligatorio avere la bava alla bocca e ringhiare. Così gli idealisti, peggio se in versione giovane e donna, sono diventati di troppo. Io non credo che chi dedica la vita agli altri abbia una superiorità morale ma credo che meriti grande rispetto e ammirazione.
Ho avuto la fortuna di conoscere tante persone che hanno investito pezzi della loro vita in un’idea di attenzione e servizio per gli altri, in Italia come in Africa, senza fare troppa distinzione se le persone da curare, a cui insegnare a scrivere o da assistere fossero italiani o stranieri. Sono uomini e donne che non hanno fatto mai notizia (e non desideravano farla) e che magari hanno speso gli anni della loro gioventù o della loro pensione costruendo pozzi, riparando ospedali o facendo tetti alle scuole. Spesso sono gli stessi che quando sono a casa nostra partono per dare una mano durante un’alluvione o dopo un terremoto. Ne ho conosciuti di Brescia, di Cuneo, di Bergamo, di Roma, della campagna veneta.
Ho avuto l’onore di ascoltare le storie di Giovanni Dall’Oglio, medico, alpinista, istruttore di rafting, che lavora da una vita in Africa (ora è in Sud Sudan) e non si è mai fermato. Nemmeno quando suo fratello Paolo, gesuita con la vocazione al dialogo tra le religioni, è stato inghiottito dalla guerra civile siriana.
Poi ci sono quelli che hanno fatto notizia, perché sono rimasti a combattere ebola e le febbri emorragiche fino all’ultimo o non hanno abbandonato i loro pazienti o i bambini di una scuola anche se si avvicinavano paramilitari, terroristi o banditi. Erano tutti spinti da un moto del cuore, da qualcosa che fa stare bene e infonde coraggio, sembrerà naïf ma è così. Ho avuto due zii medici che in maniera probabilmente sconsiderata e irrazionale partirono per una zona sperduta e completamente inospitale dell’Uganda quando avevano 26 anni. La loro lista di nozze, che comprendeva 22 letti e gli strumenti chirurgici, contribuì ad aprire un minuscolo ospedale nella savana. Rimasero alcuni anni e ne passarono di tutti i colori, poi senza clamore tornarono in Italia e andarono a fare i medici condotti in Val Brembana. Oggi quel piccolo ospedale ha 284 posti letto e fa duemila operazioni l’anno. Quando andai a trovare lo zio, poche settimane prima che una malattia comune ce lo portasse via, gli chiesi seriamente se ne era valsa la pena. Stette un po’ zitto poi mi disse: «Ero destinato a una carriera universitaria e quando decidemmo di partire il mio professore commentò con freddezza “un’intelligenza sprecata”. Certo forse abbiamo sbagliato non dando nessuna importanza al profilo economico, la mia pensione è bassa e avrei potuto comprare una casa ai miei figli, ma ho dato loro altro e, alla fine, rifarei ogni scelta». Rimase ancora un po’ in silenzio e poi aggiunse una frase soltanto: «No, nessun rimpianto, è stata una vita meravigliosa ».
Speriamo che Silvia Romano torni a casa presto e che possa continuare ad avere la vita che desidera, ad andare dove la spingono i suoi sogni. Le auguriamo una vita meravigliosa.