L’intervista al commissario Ue
«Non sono Babbo Natale, sono il Commissario agli affari economici. È questione di rispetto, serietà e dignità. Io negozio con Tria e con il premier»
Al decimo piano del Berlaymont, il palazzo della Commissione Ue, sulla porta del capo gabinetto di Pierre Moscovici è appesa una foto del commissario agli Affari economici che scruta in modo quasi febbrile il volto del ministro Giovanni Tria. La didascalia recita: «Let’s the stress begin», «che cominci lo stress». Intanto nel suo ufficio Moscovici si sta rilassando dopo pranzo con una lattina di coca light e una traduzione francese di Italo Svevo. Due ore prima ha annunciato la prima mossa di una procedura sui conti dell’Italia e Matteo Salvini, il vicepremier, ha replicato: «Aspetto una lettera di Babbo Natale».
Commissario, che effetto le fa una risposta così?
«L’opinione della Commissione è un passaggio importante di una procedura prevista dai trattati, che sono approvati da tutti. Non mi sono messo il vestito rosso o la barba bianca e non sono Babbo Natale: sono il commissario agli Affari economici e finanziari e penso si debbano trattare queste questioni con rispetto reciproco, serietà e dignità. Non con disinvoltura e un’ironia che stride. È importante per gli italiani e per tutti gli europei. Diamoci da fare perché c’è tanto lavoro in questa situazione che nessuno ha voluto. Certo non noi. Il dialogo non è un’opzione, è un imperativo necessario più che mai».
Lei parla con il ministro dell’Economia, che non ha potere, ma non con chi ne ha: i vicepremier Salvini e Luigi Di Maio. Non è il caso di chiamarli?
«Non possiamo pensare che il governo di un grande Paese del G7, la terza economia dell’area euro, e le istituzioni di questo Paese siano un Villaggio Potëmkin o di carta pesta. Le istituzioni vanno prese sul serio. Quando parlo al mio interlocutore Tria, quando vengo ricevuto dal presidente della Repubblica a Roma, parlo a persone che rappresentano istituzioni reali. Non possiamo mettere in dubbio la legittimità dei nostri interlocutori. Tocca poi a loro vedere con i loro colleghi come si può organizzare il dialogo».
Per ora è fra sordi, zero passi avanti.
«Non la metterei così. Tenere un filo di dialogo significa che restiamo in un quadro comune, la zona euro, e in istituzioni comuni come l’eurogruppo. Significa che parliamo fra istituzioni che hanno anche un passato e un futuro importanti. Salvini stesso ha detto che è disposto al dialogo sulla manovra, dunque capisce la posta in gioco. Continuerò a confrontarmi con i miei interlocutori e se a un certo punto ci fosse occasione di incontrare Salvini o Di Maio in conversazioni più informali, non sono contro. Ma istituzionalmente i miei interlocutori saranno sempre Tria e il premier».
È sostenibile per l’Italia uno spread inchiodato sopra i 300 punti?
«Non tocca a noi dirlo. Non commentiamo i movimenti di mercato e cerchiamo di non provocarli. Siamo dei regolatori, non degli speculatori. Ma un livello di spread elevato ha conseguenze che conosciamo. Dunque chiediamoci cos’è che crea lo spread e non confondiamo il termometro con la febbre…».
Non sarete per caso voi con le vostre azioni ad agitare i mercati?
«Parlo proprio di questo. Non è il termometro che provoca la febbre, è la febbre che fa salire il termometro. A far reagire i mercati non sono i commenti della commissione, sempre estremamente prudenti. A maggior ragione dato che abbiamo a che fare con un governo che sappiamo essere particolare e con certi leader politici a volte aggressivi. Dunque io raddoppio la prudenza. Non sono sicuro che sarei altrettanto cauto con un altro governo».
Lei viene criticato in Italia per delle dichiarazioni chiaramente politiche…
«La Commissione è neutra e oggettiva, segue le regole alla lettera. Non agisce né troppo in fretta, né troppo piano. Né troppo forte, né troppo dolcemente. Ciò che fa muovere i mercati sono le preoccupazioni sulla politica economica. Se le nostre dichiarazioni apparissero assurde, arbitrarie, infondate e ci fosse fiducia nella politica di bilancio dell’Italia o nella traiettoria del debito, gli investitori ci ignorerebbero. Ma non è così».
Lei ha dichiarato che gli italiani hanno eletto un governo xenofobo. Si considera un regolatore neutro, come dice, o fa politica? Può fare le due cose insieme?
«Possiamo salire le scale e masticare il chewing gum allo stesso tempo. Chi pensa che i commissari siano dei burocrati non eletti si sbaglia: sono politici, responsabili davanti al parlamento europeo come i ministri davanti ai parlamenti nazionali. Apparteniamo a partiti europei e siamo liberi di avere le nostre convinzioni. Il cittadino Pierre Moscovici non condivide in niente le idee del capo partito Matteo Salvini. Lui è amico di Marine Le Pen, io in Francia la combatto. È un mio diritto, anche se mi hanno attribuito dichiarazioni che non mie. Per esempio quando ho parlato di “piccoli Mussolini”, in Italia c’è chi ha creduto di riconoscersi. Ma stavo parlando a una procedura lanciata dall’europarlamento su un altro Paese. Stranamente, non so perché, dall’Italia c’è stata questa reazione forse freudiana. Ma nella mia funzione imparziale di commissario rispetto il ruolo istituzionale di Salvini e Di Maio e sono amichevole verso l’Italia, sostenitore della flessibilità, nemico delle sanzioni e fra i più moderati nell’applicare le regole. È stato così con i precedenti governi italiani, è così anche con questo».
L’Fmi propone per l’Italia un risanamento dei conti lento e graduale. Quando formulerete raccomandazioni per la procedura, farete lo stesso?
«La mia parola d’ordine: passo passo. Mi rifiuto di saltare alle conclusioni. Abbiamo giusto lanciato il processo che potrebbe condurre all’apertura della procedura. Ma il seguito non è già scritto: né il ritmo, né la traiettoria di riduzione del deficit e del debito. Per questo la disinvoltura non è la risposta adatta: troppo facile sparare sul pianista di Bruxelles. In questa vicenda noi siamo un elemento della catena, ma gli altri Stati decidono e l’Italia è sotto lo sguardo di tutti i governi, unanimi nel pensare che il Paese non sia sulla strada giusta. Tutti sperano che l’Italia resti decisiva al cuore della zona euro, ma sono preoccupati per la rotta che allontana la riduzione del debito e rischia di non creare crescita. Semmai, l’opposto».
Questa procedura sarà utilizzata da Salvini e Di Maio come strumento per farci campagna elettorale alle europee. La fa riflettere?
«Ogni giorno. È la ragione per cui l’atteggiamento e il linguaggio della Commissione sono estremamente prudenti. Non voglio andare troppo lontano o sopravvalutare il mio ruolo. Il nostro compito non è picchiare più forte o più in fretta per far muovere i mercati. Noi siamo i guardiani del Trattato che applicano una procedura passo per passo. Né tocca a noi prendere posizione nel dibattito italiano: non ho commenti da fare sull’opportunità di fare un programma sulla povertà o sulle infrastrutture».
Le interessano i saldi del deficit o come l’uso specifico del deficit influenza la capacità di crescere?
«Mi interessano i saldi, è la regola. Ma per le previsioni di crescita siamo interessati anche alla composizione del bilancio. E non ci sembra sia idonea, perché il principale problema dell’Italia è la debolezza della sua produttività. Se ci sono delle misure di spesa, sarebbe stato meglio concentrarle sugli investimenti».
Dunque se il bilancio fosse più favorevole agli investimenti e all’aumento di produttività, con gli stessi deficit la situazione sarebbe meno grave?
«Non ho detto questo. La mia responsabilità è assicurarmi che i deficit strutturali si riducano e che il debito pubblico sia sotto controllo».
La tensione di mercato nasce con la svolta politica dell’Italia, ma voi reagite quasi che questo fosse un problema economico come nel 2011. Le dà da pensare?
«Se c’è qualcuno a cui questo dovrebbe dare da riflettere, è il governo italiano».