Steinbeck cantò i poveri e i diseredati, ma dietro l'impegno politico c'era più fatalismo che socialismo. Così dopo la destra lo osteggiò anche la sinistra. Ritratto del Nobel a cinquant'anni dalla morte
I mocciosi scalzi, appesi alle madri come il koala all'albero, gli uomini scavati dentro le salopettes, e le catapecchie, gli autocarri con annodati sopra i materassi, le carabattole... Quasi novant'anni dopo, i dannati della Grande depressione americana che guardavano nell'obiettivo dei fotoreporter Dorothea Lange o Walker Evans continuano a fissarci misteriosamente, tipo i martiri dipinti nelle chiese. Con quegli scatti si sono illustrate le copertine dei bestseller di Steinbeck fino alla nausea, al miserabilismo di maniera. Pazienza. Erano immagini con cui la propaganda rooseveltiana intendeva denunciare l'entità del disastro in corso - oltre mezzo milione di migranti on the road - ma hanno finito per trasformarsi in un affresco epico-tragico che scavalca i muri del tempo. Se non altro perché il disastro è sempre in corso. Anche se i nuovi disperati non hanno la pelle bianca e i capelli spesso biondissimi di quei nomadi degli anni Trenta. The Harvest Gypsies, "Gli zingari del raccolto", i vagabondi del bracciantato: si intitolava così una serie di articoli che nel '36, sul San Francisco News, il trentaquattrenne John Steinbeck dedicò all'esodo dei poveracci dal Midwest verso la California. Fuggivano dagli espropri, dalle coltivazioni che il Dust Bowl, la tempesta di sabbia, aveva mandato in malora. Si incolonnavano verso una Terra promessa che però la promessa non l'avrebbe mantenuta, ricevendoli, e più di frequente respingendoli, con grugno da caporale. Scritti da Steinbeck sulla base dei report a lui trasmessi dall'assistente sociale Tom Collins, quei pezzi furono il cantiere di Furore, che uscì nell'aprile '39 facendo il botto. In un anno vendette 500 mila copie. Da allora in tutto il mondo sono diventate quindici milioni. Apprezzato dal presidente Roosevelt, ma soprattutto dalla First Lady Eleanor, il romanzo decollò anche sulla spinta delle polemiche di chi vi leggeva una violenta requisitoria anticapitalistica per non dire cripto-comunista. Naturalmente Steinbeck rivoluzionario non lo era neanche un po' né mai lo fu. Divenne casomai l'emblema, perfino un po' troppo sciropposo, dell'intellettuale liberal, riformista, umanitario. Ad ogni modo, i furori scatenati da Furore ebbero durata effimera, perché ormai l'America s'andava mobilitando per lanciarsi nella guerra europea e tra le famose "masse" il patriottismo avrebbe presto spedito in soffitta la lotta di classe. Per nascita, John Steinbeck era quantomai distante dal milieu di disgraziati celebrato nel suo capolavoro. Veniva da una famiglia germano-irlandese della piccola borghesia californiana; ebbe un'infanzia felice, ma da buon ragazzotto americano inquieto fece studi disordinati e mille mestieri - raccoglitore, cantoniere, manovratore - che avrebbero funzionato come altrettanti "carotaggi" nei crepacci sottoproletari di una collettività sul punto di disfarsi. Durante quelle esperienze in Steinbeck maturò un'illuminazione decisiva, ossia la scoperta del nesso poetico tra conflitti sociali della modernità e lotta ancestrale per la vita tout court ("la vita impetuosa e brulicante"). Non per niente si dilettò sempre di biologia: "In Steinbeck c'è una costante preoccupazione per l'aspetto biologico delle cose... Suo tema di fondo sono i processi della vita" scrisse il grande critico Edmund Wilson che pure non considerava JS la sua tazza di tè. Il presente come attualizzazione dell'eterno arcaico - soprusi, violenza, possesso - che si ripete identico e gli uomini cercano di porvi rimedio, ma con risultati comunque deperibili, essendo l'arcaico parte ineliminabile di loro. Fatta tara di qualche didascalismo di troppo, quell'intuizione respira ancora nei migliori romanzi di Steinbeck (La battaglia, Uomini e topi, ma anche i più scanzonati e picareschi Pian de la Tortilla o Vicolo Cannery) e li rende dei classici. Libri che dietro l'apparenza naturalistica (dalla quale restò irretito chi li rubricò frettolosamente nel filone del "realismo sociale") affondano in un lirismo che se la formula non suonasse pacchiana definiresti neo-biblico. The Grapes of Wrath, "I grappoli dell'ira": il titolo originale di Furore richiama una canzone della Guerra civile americana che a sua volta alludeva all'Apocalisse di Giovanni. Quello italiano fu scelto invece dall'editore Valentino Bompiani, il quale su suggerimento di Elio Vittorini pubblicò il romanzo quasi subito, nel '40, un po' sforbiciato dalla censura fascista che tuttavia lo lasciò passare ritenendolo un'utile denuncia del "demoplutocratico" sistema statunitense. In Furore, la migrazione verso il West di una famiglia di Okies, di spiantati dell'Oklahoma, ha pure lei toni e tempi biblici: sembra durare un secolo. Le generazioni si avvicendano sulla terra come nell'Ecclesiaste, i vecchi muoiono, i figli cercano di tenere botta, i figli dei figli si disperdono, si fottono la vita nella violenza o (forse) si riscattano... Poi un colpo alla ruota e si ricomincia daccapo. È ovvio che una tale visione ciclica, fatalista, delle umane vicende non garbasse ai quei marxisti per i quali la rivoluzione è evento messianico che impianta definitivamente il paradiso in Terra. Fu così che, per motivi opposti a quelli "di destra" degli anni Trenta, Steinbeck venne ostracizzato dalla new left del dopoguerra. Nella dura temperie della letteratura engagée era considerato poco più di un vecchio arnese, un socialista sentimentale, antidiluviano, un molle umanista fila-e-fondi. Quando nel 1962 vinse il Nobel molti lo ritennero un premio alla memoria. E in seguito i suoi "patriottici" reportage dal Vietnam non lo aiutarono a farsi nuovi amici a sinistra. Il meglio della vena di Steinbeck si era di certo esaurito nel decennio dei Trenta. Però siccome i narratori di razza hanno spesso colpi di coda, La valle dell'Eden (1952) è un romanzo che lèvati. Il film che ne trasse Elia Kazan, con James Dean superstar in erba, gli rende giustizia solo in misera parte. Mentre Furore di John Ford aveva tradito l'originale, però bene. Alla fine del libro la sventurata Rosa Tea, che ha partorito un bimbo morto, scopre il seno e lo offre a un povero vecchio smunto. Scena dalla simbologia telefonata e ai limiti del Grand Guignol proletario. Anche perché troppo osée, Ford la tolse, chiudendo con l'addio notturno di Tom Joad (Henry Fonda) all'anziana madre (Jane Darwell, grandissima, premio Oscar). Abbracciando il figlio lei dice: "Arrivederci Tommy... Noi Joad non siamo gente da commuoverci". Però ha i lucciconi. Grossa, col doppio mento, verrà pure dall'Oklahoma, ma sembra una struggente mammona di San Giorgio a Cremano.