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Una nuova lotta di classe. Lo spettro che si aggira per il mondo

La carovana dei desperados in Messico vista come una invasione da Trump. I flussi trasversali in Africa, l'Australia come sogno asiatico. La globalizzazione ha plasmato il modo di vivere non solo delle élite, ma di intere masse

di Stefano Cingolani

11 Novembre 2018 alle 06:00

La carovana dei desperados si è fermata a Ciudad de México, a mille cinquecento cinquantasei chilometri da El Paso, la città degli Stati Uniti oltre il confine. Le avanguardie più allenate possono percorrere 20-25 chilometri al giorno, dunque ci vorrà più di un mese, senza inciampi, per arrivare al Rio Bravo. “Un pericolo imminente, una invasione”, tuona Donald Trump e fa il pieno di voti in Arizona, Texas, Arkansas, Alabama, Florida, là dove il Messico è a un tiro di schioppo, o nel golfo in cui la fucina degli uragani rimbomba come quella di Vulcano. “Propaganda, fake news”, gridano i liberal disperati, assediati, asserragliati nelle loro roccaforti, le città globali, dove organizzano l’eroica resistenza. Contro quella minaccia che ancora non c’è e forse non ci sarà, il presidente americano schiera l’esercito, stende il filo spinato, allunga un muro già alto e lungo.

È l’America più divisa e radicale che mai dopo le elezioni di medio termine che hanno spaccato in due anche il Congresso. L’onda blu sperata dai Democrats non c’è stata, un recupero, un risveglio, forse la premessa di una rivincita futura, chissà, ma niente onda. Altri sono i cavalloni che muovono il mondo intero, una tempesta che sconquassa le tradizionali divisioni politiche e sociali, uno tsunami che spazza via le vecchie divisioni di classe per creare nuove divisioni e nuove classi. L’America specchio delle nostre brame oggi è diventata il riflesso amplificato delle nostre paure e delle nostre più profonde pulsioni, la palestra di una nuova lotta di classe.
Marce attraverso i continenti; flottiglie improvvisate che solcano i mari; uomini, donne e bambini lungo i sentieri di montagna. Non sono più i dannati della terra che secondo Franz Fanon avrebbero guidato la rivoluzione mondiale, tanto meno le masse arcaiche “trascinate nella civiltà” da quella forza dirompente del capitalismo che aveva affascinato Karl Marx. E’ qualcosa di antico come l’uomo e di nuovo come l’intricato fenomeno che abbiamo chiamato globalizzazione, elemento mistico contro il quale s’abbatte la forza opposta, quella del popolo impaurito e rancoroso che ha preso i forconi. In mezzo ci sono loro, i buonisti, i perbenisti, i mondialisti, gli europeisti, i progressisti, che alzano le trincee tra i grattacieli delle archistar.
Chiusi nelle biblioteche di Babele tra linguaggi che nessuno coltiva più, circondati da libri pronti per il grande fuoco della nuova Fahrenheit 451; ascoltano quartetti d’archi le cui melodie si frantumano in lamenti o esametri in rima non ancora trasformati in singulti, in brontolii, in reflussi esofagei; dentro cattedrali che serbano i dipinti dell’ultima era in cui l’umanesimo romano regolava ancora la foresta nera e i suoi troll. Li raccontano così, li sbeffeggiano, li attaccano, hanno preso il loro posto in plancia di comando, e adesso scoprono che non sanno come funziona il timone. E mentre liberal e populisti si contendono gli scranni, in mezzo spunta la marcia non più del quarto, ma del quinto stato.
I nuovi disperati non sono le vittime del sottosviluppo, come si diceva al tempi del terzomondismo imperante quando un socialdemocratico tedesco, Willy Brandt, pubblicava il rapporto Nord-Sud che voleva un trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri, per aiutarli a casa loro. Proprio da lì, da quel terzomondismo distributivo anziché produttivo, viene il ritornello tanto popolare quanto vuoto, perché nessuno sa quale sia più la casa loro e perché non vogliono aiuti, ma telefonini. Sì, ha fatto di più il cellulare per la crescita in Africa, in Asia, in America, di tutti gli aiuti umanitari. Non c’è un’economia del villaggio da preservare, la stessa povertà non è la fame di un tempo, quando l’anima buona del Sezuan si privava della sua ciotola di riso per darla al mendicante.Certo, la maggior parte di quella pattuglia partita il 12 ottobre (allora erano appena 160 oggi sono circa settemila) viene da Guatemala e Honduras che secondo l’Onu e la Banca Mondiale sono tra i paesi più poveri al mondo. Tuttavia Mauricio Mancilla che porta con sé il figlio di sei anni, non vuole la carità né l’assistenza anche se adesso potrebbero soddisfare i suoi bisogni più elementari, il suo obiettivo, ha detto alla Bbc, è “vivere il sogno americano”. Nel trolley nasconde la bombetta di un miliardario come il bastone di maresciallo in ogni zaino napoleonico, ma non c’è solo quella, c’è la legge, c’è una vita ordinata, c’è una casa pulita e una città ben organizzata, insomma tutto quello che l’occidente offre a una umanità uscita dalla sussistenza. Mauricio potrebbe ottenere tutto ciò a casa sua? Può darsi, ma così non è. Lui a casa sua ci tornerà un giorno, portando con sé tutto quello che ha visto e vissuto. Le carovane in America latina non si muovono solo verso nord.
Anzi, il flusso di migranti è diretto soprattutto ai paesi vicini. C’è una emergenza umanitaria pari o forse anche superiore a quella del Mediterraneo, denuncia l’Onu, aggravata dal collasso del Venezuela chavista. Il Perù è trai paesi maggiormente investiti dall’onda umana, insieme al Brasile e alla Colombia. Anche lì si manda l’esercito, si potenziano i confini; anche lì è tutto inutile. L’Africa offre un panorama simile. Al contrario di quel che percepiamo noi italiani, il grande flusso è trasversale.Il rapporto dell’Ispi curato da Giovanni Carbone e introdotto da Paolo Magri spiega che anche gli africani quando attraversano un confine internazionale si dirigono verso il paese limitrofo, a causa dei costi molto elevati per spostarsi in grandi distanze, costi che molto spesso includono la perdita delle loro vite. “In realtà, qualcosa di veramente eccezionale è il numero di paesi sub-sahariani che ospitano migranti, da altre zone dell’Africa: tra questi il Sudan, la Repubblica democratica del Congo, la Somalia, la Nigeria, in ciascuno di loro ci sono almeno due milioni di persone”. Un continente nato senza confini, torna ad aprire di fatto le sue barriere per lo più artificiali, un lascito del colonialismo europeo. “La migrazione è un fenomeno a molte facce – aggiunge il rapporto –. Contrariamente a quel che si crede, un più alto livello di sviluppo, piuttosto che di povertà, è la principale spinta alla migrazione”.

Rotte trasversali e longitudinali attraversano come un vasto reticolo anche l’Asia. E il sogno asiatico si chiama Australia. Negli ultimi trent’anni ondate successive di immigrati hanno portato al raddoppio della popolazione, che oggi è pari a quasi 25 milioni di abitanti. Il cosiddetto modello australiano è stato spesso portato a esempio di efficienza e rigore. Ma funziona davvero? L’Australia ha un sistema a punti per la categoria degli “skilled migrants” (migranti qualificati) che considera il tipo di lavoro (e in particolare se risponde alle necessità dell’economia locale), l’istruzione e l’età. Bisogna anche passare test sulla salute e sul cosiddetto “carattere” del candidato, che non dovrebbe avere precedenti penali nel paese d’origine. Il punteggio favorisce senza dubbio una selezione anche qualitativa che manca per lo più nei paesi europei e anche negli Stati Uniti.
In ogni caso, nel solo 2017 l’Australia, dipinta come un’isola protetta e impermeabile, ha accolto 184 mila nuove persone, il flusso medio è pari all’1,6 per cento della popolazione rispetto a una media dei paesi sviluppati pari allo 0,7 per cento nel 2016. L’India è la principale fonte di immigrati (21 per cento), seguita dalla Cina (15 per cento) e dalla Gran Bretagna (9 per cento). Le stime parlano dell’arrivo di 11,8 milioni di persone nei prossimi trent’anni che si concentreranno nelle quattro principali città, Sydney, Melbourne, Brisbane e Perth con probabile pressione sulle infrastrutture urbane. Secondo un recente sondaggio del Lowy Institute, quattro cittadini australiani su dieci credono che il numero degli immigrati sia troppo alto. Il presidente della Reserve Bank australiana, Philip Lowe, sostiene che un’ulteriore espansione demografica aiuterebbe l’economia. La crescita del prodotto interno lordo pro capite è scesa a zero nel 2017, un aumento della popolazione australiana renderebbe meno probabile lo scivolamento verso la stagnazione.È un criterio pragmatico, anzi utilitaristico che certo non soddisfa le anime belle, ma loro come hanno risposto a questo mondo a testa in giù? Simon Kuper sul Financial Times ha scritto l’epitaffio dei progressisti. Trump può facilmente vincere di nuovo nel 2020; Viktor Orbán è al potere dal 2010 e ci resterà per altri quattro anni; Benjamin Netanyahu governa Israele dal 2009 mentre la sinistra laica e progressista è collassata; in Polonia la destra può ottenere la riconferma l’anno prossimo; in Italia abbiamo visto quel che è successo. Il populismo e il nazionalismo in molti paesi si rafforzano da soli, talvolta grazie al fatto che buona parte delle élite liberali se ne vanno, così come gli ebrei, i gay, le minoranze discriminate, o anche i giovani che non vogliono sottostare alla gogna (o magari alla ghigliottina) del popolo, stanno facendo in Ungheria dove, paradossalmente, la destra vive grazie alle rimesse degli emigrati di sinistra.

Anziché spezzare l’accerchiamento i liberal tendono a rinchiudersi nelle loro enclave. La mappa del voto negli Stati Uniti dimostra che i democratici hanno aumentato i loro consensi, anche in stati proibiti come la Florida, ma non hanno sfondato e alla fine il blu (il colore del Partito democratico) resta ancora incollato alla costa del nord-est, alla California e così via. I castelli dei progressisti sono sempre gli stessi. Ciò accade anche in Europa. Londra non vuole la Brexit dalla quale sarà penalizzata. Parigi è guidata da Anne Hidalgo, cittadina spagnola e francese, quintessenza della socialista à la page. La Milano che pure fu amministrata dalla Lega e da Forza Italia, offre oggi con il suo skyline di grattacieli l’immagine di quell’internazionalismo neocapitalista aborrito dai sovranisti gialloverdi.
 Di fronte all’onda sollevata dagli “amici del popolo”, i liberal hanno predicato la moderazione e sono stati spiazzati. Hanno cercato di occupare il centro e il centro si è spaccato. Hanno voluto le riforme e hanno scatenato la controrivoluzione. E ora li accusano di aver coltivato l’utopia e generato la cacotopia. C’è chi vuole ripercorrere la terza via e propone di stemperare il liberismo, ammansire la bestia, come Martin Wolf, vecchio cantore della globalizzazione. Ma al cuore della crisi attuale non c’è solo l’economia, c’è la cultura nel suo senso più ampio, ci sono i valori sul quale si è fondato il mondo che ora viene messo all’indice.Il potere dei forconi e dei forcaioli si fonda sul terrore della classe media, la paura della proletarizzazione, la percezione di un declassamento non solo economico, ma sociale, ideologico persino. E’ stato fondamentale il doppio colpo inferto al nuovo mondo libero e neo-liberale sognato e sperato dopo la caduta del Muro di Berlino. Il primo colpo di carattere geopolitico è stato l’attacco dell’11 settembre, il secondo, economico, ha ferito al cuore il sistema dieci anni fa. Se l’America, l’immensa isola tra gli oceani che mai è stata invasa dai nemici, non era più invulnerabile, chi altro lo sarebbe mai potuto essere?

Sei anni dopo collassa l’economia mondiale che aveva cominciato a correre all’impazzata da quasi quindici anni con una breve pausa quando si è sgonfiata, a cavallo dei due secoli, la bolla internet. Finisce così anche la sicurezza economica tra gli strepiti di chi annuncia l’ennesima morte del capitalismo e la prosopopea di chi propone un nuovo modello, come la Cina del socialismo di mercato o, pensate un po’, persino la Russia neozarista. E chi più della classe media, anzi della piccola borghesia, ha mai fatto della sicurezza il mantra della propria esistenza?

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