di Vincenzo Bisbiglia, Roberto Rotunno e Andrea Tornago | 15 ottobre 2018 - Il Fatto Quotidiano
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Negozi chiusi la domenica e i festivi. La questione, oggetto di diverse proposte di legge è approdata nelle commissioni parlamentari con l’avvio delle audizioni alla Camera. M5S contempla turni a rotazione per l’apertura degli esercizi commerciali secondo un Piano per la regolazione tralasciando le città d’arte; la proposta della Lega prevede un obbligo di 8 chiusure l’anno di cui 4 domeniche nel mese di dicembre e altre nel corso degli altri mesi; ad ampio raggio il Pd che non prevede limiti agli orari a eccezione delle maggiori festività, come Capodanno o il 1° maggio. Dietro le battaglie sull’importanza del tempo da passare in famiglia, c’è per tutti il tentativo di penalizzare la grande distribuzione a favore di piccoli esercizi. Ma nelle audizioni in corso, l’Ufficio parlamentare di Bilancio, un’autorità indipendente, ha smontato il mito dell’eccezionalità italiana del lavoro domenicale: nei Paesi Ue lavorano una domenica al mese in media il 30% dei lavoratori, mentre l’Italia è al quintultimo posto con il 24%. Il punto resta, infatti, lo stipendio: per la per gran parte degli addetti del commercio lavorare il settimo giorno è un obbligo non adeguatamente retribuito. Come dimostra il viaggio che abbiamo fatto attraverso racconti di quanti le domeniche di shopping le vivono dietro i banconi.
Verona. Sira: “Da 8 anni aspettiamo le assunzioni”
L’aria è fresca e il cielo è ancora scuro quando arrivano nel parcheggio del centro commerciale. Le strade di Verona sono strisce umide e deserte, il piazzale davanti all’ingresso è vuoto. La mattina presto le uniche auto sono quelle dei lavoratori della domenica, chiamati ad aprire le porte del tempio del consumo. Poi le luci si accendono, cominciano a stridere le ruote delle auto che cercano un posto nel parcheggio interrato. Un’altra domenica. La vita di Sira, da 8 anni, è così. “La domenica per noi non esiste più, anzi, è diventata un incubo” , spiega Sira, che lavora da 25 anni in una grande catena di elettrodomestici. “Riusciamo a stare a casa – prosegue – al massimo un paio di domeniche all’anno. Si perdono amicizie, possibilità di stare insieme, senso della famiglia”. Con la liberalizzazione del governo Monti avevano promesso nuove assunzioni per coprire le aperture domenicali. “In realtà non è successo, le aziende hanno scaricato su di noi, ci siamo organizzati i turni per fare anche il fine settimana: un servizio così non è garantito nemmeno negli ospedali”.Chi ha figli piccoli, poi, non sa come gestirli: “Chi può li lascia ai nonni, o al partner se fa un lavoro diverso ed ha la fortuna di essere a casa”. Il tutto per pochi euro in più. Il contratto collettivo del commercio prevede il 30 per cento in più di retribuzione per le ore lavorate di domenica. “Ma se il contratto non è applicato, come nel caso della Federdistribuzione, non c’è neanche questa certezza”, spiega Floriano Zanoni, segretario della Filcams Cgil di Verona. Che aggiunge: “In molti casi la questione è lasciata alla contrattazione aziendale. Noi, dove siamo presenti, cerchiamo almeno di prevedere dei meccanismi di rotazione”. Andrea lavora da quasi trent’anni in una catena tedesca della grande distribuzione: “Siamo d’accordo con l’idea di abolire il ‘sempre aperto’, non funziona, non porta maggiori guadagni, è stato solo un disastro per le nostre vite. Tra l’altro essere aperti anche Pasqua e Natale è assurdo: siamo lì solo per i non cristiani, per gli stranieri che bazzicano nel centro commerciale e non spendono. Gente che ha il nostro stile di vita e di pensiero. Inutile cercare di parlare con i lavoratori del supermercato: “Si rivolga al punto informazioni all’entrata – risponde una ragazza imbarazzata – Io che ne so che non la manda la direzione? Noi non possiamo parlare con nessuno”. Due commesse, in un negozio di scarpe, invece raccontano volentieri: “Io ho girato vari negozi, Verona, Padova, Milano, ed è così dappertutto: se va bene un 30 per cento in più e nel contratto prevedono almeno 3 domeniche al mese lavorative”, spiega la prima ragazza, anche lei favorevole alla chiusura di domenica. “Chi lavora domenica, ha fatto anche il sabato. Hai il giorno libero durante la settimana, ma è un giorno perso in cui non sai che cosa fare e con chi – continua la collega –. Quello che ci pesa di più è dover lavorare anche sotto le festività, almeno per me che sono cristiana. Io non voglio lavorare il giorno di Santo Stefano, di Pasquetta. Se potessi mi metterei qui fuori con un cartellone per protestare”.
Roma. “Costretta a scegliere tra il lavoro e avere dei figli”
Il responsabile aggiuntivo del Tuodì al Prenestino è di turno tre domeniche su quattro, ma il massimo della maggiorazione in busta paga è di 50 euro. Al Gros di via Tuscolana, invece, la domenica è un giorno come un altro, senza distinzione: si riposa quando capita e se lo stipendio arriva a 1.000 euro è grasso che cola. La commessa nella lussuosa Rinascente di via del Tritone ha due lauree, parla quattro lingue, ma anche lei la domenica si alza all’alba, indossa il tailleur per poi restare ore a braccia conserte nel suo corner in attesa di qualche straniero facoltoso. A Roma, secondo i dati della Filcams Cgil locale, le liberalizzazioni delle aperture in questi anni non hanno prodotto posti di lavori significativi nel settore commercio: “Le ore di lavoro sono state spalmate sui 7 giorni, i contratti sono peggiorati, il precariato è rimasto tale e gli stati di crisi non si sono risolti”, allarga le braccia la segretaria romana Alessandra Pelliccia. “Da noi ci sono i cosiddetti contratti a forfait – racconta Cristiano, responsabile al Tuodì – Il mio stipendio è di 1.200 euro per 40 ore settimanali, ma diventa di 1.260 euro se fai 60 ore”. Stipendi per cui vale la pena non potersi godere un po’ la propria famiglia? Questo è il tema al centro del dibattito fra gli stessi lavoratori. Ivan, ad esempio, ha 20 anni, fa il cassiere al Sacoph a 800 euro al mese per pagarsi l’università e delle domeniche libere gliene importa poco: “A me 20-30 euro in più sulla busta paga fanno comodo, sto studiando, non è il lavoro della mia vita”. Nel suo punto vendita ogni tanto s’incontrano facce nuove: “I contratti sono a 6 mesi o a 1 anno – dice Samantha – E ogni tanto qualcuno se ne va di sua spontanea volontà”. La domenica è un giorno come un altro: “Dipende dai negozi – spiega Francesco – al Tuscolano stanno aperti tutto il giorno, ai Parioli solo il pomeriggio. I clienti? La maggior parte potrebbe venire il sabato, ma per pigrizia scelgono la domenica: verrebbero comunque da noi”.Non solo supermarket, come detto. Da Intimissimi molte commesse hanno contratti a tempo determinato e per loro i festivi sono giorni come altri. “Lo scorso 1° maggio siamo rimasti aperti – racconta Valeria – perché la manager si è accorta che stavamo sotto con i numeri rispetto all’anno precedente e dovevamo fare meglio”. In questo tipo di negozi, nelle vie dello shopping di periferia sono quasi sempre donne: “Oggi io e il mio compagno non abbiamo problemi, lavoriamo entrambi la domenica. Ma mi domando: e se volessi avere dei figli?”. Alla Rinascente del Tritone, il contratto varia a seconda che tu sia dipendente di un marchio concessionario dello spazio o dell’azienda madre. In entrambi i casi, si lavora tutti i giorni su due turni dalle 9 alle 23 (ma in molti arrivano anche alle 7) con possibili maggiorazioni sul notturno e sui festivi che al massimo raggiungono il 20% in più l’ora. “Ma la domenica non c’è questo grande afflusso, come la sera dopo le 20, d’altronde – spiega Fabiana – tenendo conto che il lusso è differente dalla merce di massa, diventa ancora più difficile piazzare capi del genere con soli 40 accessi giornalieri a ciascun corner”.
Diversa la situazione dei grandi centri commerciali di periferia. A Porte di Roma come a Roma Est, la domenica è giornata di grande shopping. “Ma la mattina non c’e’ nessuno – racconta Federica – La gente inizia ad arrivare intorno alle 15, quando apre il cinema. Restare chiusi la domenica? Forse per noi sarebbe un danno, in molti lavorano solo il weekend”.
Bari. Il weekindista assunto dalla cooperitiva
“Io e mia moglie lavoriamo entrambi nel commercio. Ormai è raro passare insieme la domenica”. Chi parla è un dipendente dell’Ikea di Mungivacca, a due passi da Bari. Qui il colosso svedese ha inaugurato il punto vendita nel 2007 e, dal momento della liberalizzazione, ha applicato la stessa politica delle concorrenti: aperti tutte le domeniche e in quasi tutti i giorni festivi.Il lavoratore che racconta la sua esperienza si ritiene addirittura fortunato rispetto a molti colleghi, perché ha un contratto full time e quindi deve garantire la presenza una domenica sì e una no; ne fa circa 25 all’anno. La maggior parte degli addetti, però, ha un part time e qui le cose cambiano. “Chi ha un contratto da 24 o 30 ore – spiega – è costretto a fare ben 39 domeniche all’anno, anche nove di seguito per legge”. E come fare quando si ha un battesimo o una comunione? “Se lo comunichi al caporeparto con due o tre mesi di anticipo – prosegue – allora hai buone possibilità che la tua richiesta venga accettata. Se però è imprevista e la invii poco prima, in genere viene rigettata a meno che non trovi un sostituto”. Ikea resta comunque uno dei marchi che pagano meglio le domeniche: la maggiorazione prevista dal contratto integrativo è del 60%. Un premio al quale tanti rinuncerebbero pur di trascorrere qualche festività in più a casa. “Noi non diciamo che dobbiamo essere sempre chiusi – conclude il lavoratore – ma nemmeno sempre aperti. Invece ci dicono che nei giorni festivi bisogna puntare sui clienti che vengono a spendere per noia”.
La liberalizzazione del 2012 ha creato una sorta di discriminazione: chi è stato assunto prima di quella data è tenuto a lavorare meno domeniche rispetto a quelli reclutati dopo. Ed è nata anche la figura dei weekendisti, assunti per poche ore concentrate nel fine settimana. La Puglia è una delle Regioni che in questi anni si è mobilitata più di tutte con scioperi organizzati dalla Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs – i sindacati del commercio – per chiedere aperture regolamentate.
Tra Bari, l’hinterland e gli altri capoluoghi di provincia sono presenti diversi Ipercoop. In questa catena si prova a venire incontro ai lavoratori: “Nel nostro ipermercato – racconta uno di loro – tutti hanno almeno una o due domeniche libere al mese. Quando qualcuno ha qualche esigenza lo fa presente e in genere i permessi non vengono negati”. La maggiorazione, però, si ferma al 35%. Solo il 30%, invece, l’incremento per chi lavoro presso Auchan. Anche qui sono penalizzati i part time: “Io che lavoro a tempo ridotto – spiega un addetto – faccio praticamente tutte le domeniche e recupero il riposo in settimana”.
Le catene negli ultimi sei anni hanno sempre inserito l’obbligo della prestazione domenicale nei contratti. Solo gli accordi integrativi hanno permesso turnazioni più eque, ma non sempre si è riuscito a firmarli. “È un compito gravoso riuscire a condividere l’organizzazione con le aziende – fa notare Barbara Neglia, segretaria della Filcams Puglia –. Ci siamo riusciti con Mercatone Uno, che garantisce due domeniche libere al mese per tutti, con altre catene purtroppo no”.