Giovanni Tria rompe con la tradizione: per il primo viaggio all’estero sceglie la Cina e non una capitale europea. Nell’ultima settimana di agosto il ministro dell’Economia del governo giallo-verde volerà a Pechino
Durante l’intero dopoguerra, la prima visita ufficiale di un ministro italiano dell’Economia dopo il suo debutto era sempre stata riservata a luoghi prevedibili: Parigi, Bonn e poi Berlino, oppure Londra, Washington e New York. Giovanni Tria invece rompe con la tradizione. Nell’ultima settimana di agosto il ministro dell’Economia del governo giallo-verde volerà a Pechino.
La visita, che per adesso non è ancora ufficialmente in programma, viene confermata da due persone del ministero coinvolte nella preparazione. Insieme a Tria viaggerà una squadra di alti funzionari dalle competenze diverse: oltre al capo dei rapporti finanziari internazionali del Tesoro Gelsomina Vigliotti, anche un dirigente del dipartimento responsabile per l’emissione e il finanziamento del debito pubblico. Quest’ultima scelta del resto non ha niente di casuale, ora che il piano di acquisti di titoli di Stato della Banca centrale europea sta per entrare in una fase molto più prudente. Per assicurare il funzionamento dello Stato l’anno prossimo, al netto di eventuali nuovi impegni, il governo italiano deve riuscire a vendere sul mercato 257 miliardi solo in nuovi titoli di debito a medio e lungo termine. E a differenza dell’anno scorso, quando comprò volumi di debito italiano pari praticamente a metà dei nuovi titoli a medio e lungo termine emessi, nel 2019 la Bce sarà in ritirata.
Non potrà più agire come il finanziatore di ultima istanza del debito italiano, come di fatto avvenuto negli ultimi due anni: dal 2016 la banca centrale è il solo operatore ad aver aumentato la propria quota sul totale dei titoli emessi dal Tesoro di Roma, mentre tutte le categorie di investitori privati hanno ridotto le loro. Ora invece però la Bce potrà acquistare debito pubblico solo per rinnovare i titoli in scadenza che già deteneva. Per l’Italia nel 2019 questi riacquisti dovrebbero valere 40 miliardi, meno di un quinto del volume di titoli a medio-lungo termine che l’Italia deve riuscire a collocare. Se non torneranno con forza gli investitori tradizionali – famiglie, banche e fondi italiani o esteri – i rendimenti rischiano di dover salire molto. Già la ridda di dichiarazioni e annunci di governo e maggioranza negli ultimi mesi hanno provocato un aumento del costo del debito che, se confermato nei prossimi mesi, nel 2019 supererà i quattro miliardi: quattromila milioni regalai ai «mercati» ma prelevati dagli italiani che lavorano e pagano le tasse, inclusi quelli a reddito più basso, solo a causa dell’incertezza creata dal governo fin qui.
Tria a Pechino cerca di trovare nelle autorità cinesi, non solo fra i privati, nuovi investitori sul debito italiano. Il ministro ha in programma incontri al massimo livello nella Banca del popolo della Cina, l’istituto centrale di Pechino che detiene riserve per 3.117 miliardi di dollari. Per parte propria il governo cinese punta a coinvolgere il governo di Roma nella sua «Belt and Road Initiative», il progetto di infrastrutture lungo le rotte commerciali globali della superpotenza cinese. In Italia interessano molto i porti del Sue e Trieste come approdi in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale, attraverso l’Oceano Indiano e Suez.
Non è la prima volta che la Cina punta sui Paesi fragili dell’Europa del Sud. In Grecia una società pubblica di Pechino opera il porto del Pireo e un’altra ha investito nella rete elettrica. In Portogallo i cinesi sono protagonisti nell’energia e nella finanza. Tanto che giorni fa l’ambasciatore americano a Lisbona, George Glass, si è detto preoccupato. «Questi sono investitori diversi dagli altri — ha osservato —. Rispondono al potere politico».
13 agosto 2018 (modifica il 13 agosto 2018 | 20:45)
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