di Giulio Meotti
26 Marzo 2018 alle 15:00
Le elezioni definitive saranno consegnate alla rabbia e all’amore, alle emozioni e al risentimento, a tutto quello che dovrebbe rimanere secondario in una politica degna di questo nome. E’ una lotta di classe, con tutti gli elementi che sin dall’antichità hanno caratterizzato questo tipo di scontro: il disprezzo e ovviamente l’odio, onnipresente”. A parlare così al Foglio è Chantal Delsol, filosofa francese, allieva di Julien Freund e fondatrice del centro studi Hannah Arendt di Parigi, che ha decifrato il populismo nel libro La nature du populisme ou les figures de l’idiot. Il suo pensiero ritorna al 1930, quando in Spagna apparve un libro di José Ortega y Gasset con cui si potrebbe spiegare buona parte del caos politico e culturale cui assistiamo da qualche anno. Si tratta della Ribellione delle masse in cui Ortega y Gasset ha delineato con straordinaria lucidità l’avvento dell’uomo dall’innato conformismo e dall’istinto gregale. Fu un’intuizione geniale: è finita la primazia delle élite e le masse, liberate dalla soggezione ad esse, hanno fatto irruzione provocando uno scompiglio dei valori civili e culturali e dei modi di comportamento sociale. Oggi si assiste a un ritorno a quello che Ortega y Gasset chiamava “il trionfo di una iperdemocrazia in cui la massa opera direttamente imponendo le sue aspirazioni e i suoi gusti. Io dubito che ci siano state altre epoche nella storia in cui la moltitudine sia giunta a governare così direttamente come nel nostro tempo”. Ortega diede un contributo essenziale alla serrata disamina della “crisi della civiltà”. Fu il barometro della crisi della cultura occidentale, il testimone attento d’un mondo turbato, smarrito. I suoi scritti nacquero in gran parte come articoli su periodici, di alcuni dei quali (come la Revista de Occidente) Ortega fu il fondatore. Nell’atmosfera marxisteggiante allora diffusa, di fronte alla moda celebrativa del “collettivo” e del “sociale”, ogni riferimento alla realtà e ai valori irriducibili dell’individuo acquistava subito un sapore reazionario. Così Ortega fu presto demonizzato e messo a lungo da parte.Advertisement
Adesso in occidente sembra essere riemerso il fantasma da lui esorcizzato. Lo si vede in politica, prima di tutto. Ma anche in ambito universitario, con le crociate isteriche nei dipartimenti delle humanities. E poi nei social network, dove il linciaggio è all’ordine del giorno, fino a #MeToo, di cui il regista Premio Oscar Terry Gilliam pochi giorni fa ha detto: “Le regole della massa hanno preso il sopravvento. Il popolo è lì fuori, con le sue fiaccole, a buttare giù il castello di Frankenstein”. Ne abbiamo parlato con una decina di intellettuali di diverso orientamento culturale.
“E’ una reazione a sviluppi di cui hanno beneficiato le élite e che hanno lasciato le ‘masse’ in condizioni di stagnazione economica e devastazione culturale”, dice al Foglio Patrick J. Deneen, docente alla Notre Dame University e autore del libro del momento in America, Why liberalism failed, una radicale critica della modernità pubblicato dalla Yale University Press. “Fin dai primi anni Novanta si stavano verificando allarmi sulla separazione delle élite dalle vite e dai destini delle persone. Lo storico Christopher Lasch ha descritto La rivolta delle élite come la grande crisi della politica contemporanea, in particolare la crescente separazione delle élite e il loro disprezzo verso i concittadini. Allo stesso modo, nel 1991 Robert Reich scrisse un saggio per il New York Times intitolato la ‘Secessione di coloro che hanno successo’ in cui descriveva un fenomeno simile. Notò l’accelerazione delle tendenze di vecchia data in cui i ricchi e quelli di successo si stavano separando dai meno fortunati. ‘La nuova élite è collegata via cavo, modem, fax, satellite e fibra ottica ai grandi centri commerciali e ricreativi del mondo, ma non è particolarmente collegata al resto della nazione’, scriveva Reich. Questa osservazione è più vera oggi di allora, a quasi trent’anni di distanza”.
A questa secessione si aggiunge il disordine culturale, spiega Deneen. “L’annacquamento della cultura e delle norme culturali a causa di un ‘mondo appiattito’, che premia il rapido movimento delle persone; l’abbassamento di qualsiasi barriera nell’ingresso e nell’uscita da nazioni, società e famiglie; l’elevazione dell’ideale di ‘auto-fabbricazione’ come condizione fondamentale della libertà umana; e l’ampia dissipazione delle credenze e delle istituzioni religiose in tutto l’occidente: tutto questo ci fa capire come specialmente i meno avvantaggiati siano rimasti alla deriva. La ‘follia’ non deriva da una posizione di forza, ma di debolezza, considerevole disperazione e profondo senso di perdita”.
Le “masse” coltivano oggi l’illusione di ribellarsi, ma secondo Patrick Deneen “tutte le fondamentali istituzioni ‘modellanti’, economiche e culturali, sono controllate dalle élite: le corporazioni, le scuole, le università, i media, i think-tank, le Ong e così via. L’unica istituzione alla quale le ‘masse’ possono ancora accedere è il processo politico democratico, che però dalla fine della Seconda guerra mondiale opera in gran parte intorno a ciò che Arthur Schlesinger un tempo chiamava ‘il centro vitale’”.
Il crollo dell’aristocrazia
“Quel centro, che forniva una serie di opzioni tra centro-destra e centro-sinistra, rese possibili da una società in cui la maggior parte delle persone ha cercato una via al successo, una voce al tavolo e il rispetto” prosegue conversando con il Foglio Patrick Deneen, autore di Why liberalism failed. “Poiché la nostra società veniva rifatta in particolare a vantaggio delle élite, le masse oscillavano tra questo centro-destra e centro-sinistra (ad esempio, negli Stati Uniti a votare per Ronald Reagan e George W. Bush a destra, e Bill Clinton e Barak Obama a sinistra), ma nel corso dei decenni pochi cambiamenti della riorganizzazione in corso della società e dell’economia hanno prodotto sempre meno vincitori e una classe di perdenti economici permanenti. Allo stesso tempo, a questi ‘perdenti’ è stato detto che hanno visioni arretrate su religione, razza, immigrazione e sessualità. Questa narrazione ha portato a completare la disillusione con il ‘centro’ e un’attrazione per la destra e la sinistra più estreme (più verso destra, ovviamente), che ha promesso di sradicare il dominio delle élite (‘drenare la palude’) e ripristinare un ordine in una società che sembra sempre più disordinata e dissoluta (‘Make America Great Again’). Quello che stiamo vedendo è il ‘ritorno al passato’ di persone che si sono sentite impotenti e stanno affermando una reazione frustrata attraverso il processo politico. Ma la loro reazione è in gran parte difensiva, e per questo motivo queste reazioni non hanno realmente mostrato forme di governo efficaci. Allo stesso tempo, le élite controllano ancora le principali istituzioni culturali, dei media e dell’istruzione e lavorano assiduamente per descrivere questa reazione politica come fondamentalmente illegittima. Questa risposta esaspera la divisione e intensifica una dinamica di animosità potenzialmente inconciliabile”.“Bisogna ricordarsi che la democrazia si è imbattuta in considerevoli problemi tra le due guerre del XX secolo” ci dice Chantal Delsol, intellettuale liberal-conservatrice francese. “Le difficoltà sono state tali (corruzione, compravendita dei voti ecc.) che si sono formate delle ‘buone’ dittature. Da qui la scia di polvere di regimi autoritari che sono scaturiti da questa epoca. Ma non esistono delle ‘buone’ dittature. Oggi sappiamo che è sempre meglio avere una cattiva democrazia. Per così dire, quindi, siamo stati messi all’angolo. Che fare quando la democrazia funziona male? Non ci sono alternative. La cosiddette ‘democrazie illiberali’ che hanno oggi il vento in poppa (in Russia, in America e in tutta l’Europa centrale), sono dei regimi che supportano l’esigenza popolare di avere meno libertà. Uno strano paradosso! Per capirlo bisogna guardare alla natura dei regimi democratici postmoderni che sono liberali-libertari. La ‘follia’ popolare oggi è quella di esigere dei limiti sia del liberismo economico che del libertarismo dei costumi. Si noterà che ovunque, senza eccezioni, le élite sono sconvolte da questa richiesta popolare e la trattano con ironia e disprezzo, parlando di sotto-educazione. Il fenomeno più importante che oggi riguarda le nostre democrazie è questa lotta di classe latente che oppone le élite al popolo in tutta la nostra società. In una democrazia in cui il popolo dovrebbe governare per rappresentanza, non si può evitare la trasformazione del popolo in massa se non attraverso un intenso decentramento. Se le decisioni vengono prese a tutti i più piccoli livelli, si può sfuggire a questa follia della folla, concreta o meno (perché anche il pubblico che guarda la televisione è in qualche modo una folla). Quando un gruppo è poco numeroso, può esprimere le sue ragioni meglio delle sue emozioni. Come scrisse una volta Gustave LeBon circa un secolo fa, gli argomenti non sono comuni in una folla. E’ sufficiente leggere cosa scrive la stampa sull’elettorato di Trump: l’odio è divorante. E dall’altro lato, ascoltare i discorsi dei cosiddetti populisti contro le élite. Tuttavia non credo che sia veramente il popolo a governare, né che si tratti di oclocrazia. Viviamo sotto dei regimi tecnocratici che sono l’equivalente di una forma di dispotismo, illuminato o no. Le sedicenti decisioni scientifiche, quindi incontestabili, vengono imposte a un popolo considerato ignorante. Credo si tratti di un’evoluzione recente, quella della globalizzazione e dell’universalizzazione di tutto. Le élite con gioia si sentono cosmopolite, ma il popolo no, perché ha le sue radici nel suo territorio, nella sua lingua e nei suoi costumi e reagisce con furia alla universalizzazione che gli viene imposta. In altre parole, la causa della crisi è un’evoluzione in termini di un’apertura che non viene accettata. I popoli occidentali si sentono ‘non contemporanei’, indietro rispetto a ciò che le élite sentono come un progresso benefico. Questo è ciò che ovunque genera i cosiddetti populismi”.
Nel XX secolo si legittimavano le rivoluzioni attraverso forti ideologie di destra e di sinistra, “oggi paradossalmente il malcontento è anti-ideologico, da qui l’uso amorfo del termine ‘populismo’ che non ha un contenuto positivo coerente e il Movimento 5 stelle ne è l’esempio principale”, ci dice Julius Krein, giovane astro in ascesa del conservatorismo americano e direttore della rivista American Affairs. “Donald Trump ha offerto poco in termini di visione politica positiva. Era semplicemente l’unico candidato a offrire delle critiche su evidenti fallimenti politici, e un voto per lui era un modo per disapprovare il sistema piuttosto che una scelta per un chiaro programma politico. I suoi sostenitori non meno dei suoi critici continuano a speculare su ciò in cui egli crede veramente. E quelli che hanno votato per la Brexit apparentemente sapevano a cosa erano contrari, ma sembra sempre più ovvio che non sapessero a cosa fossero favorevoli. In effetti, la mancanza di contenuto ideologico del ‘populismo’ potrebbe impedirgli di compiere molto con le sue vittorie elettorali”.
Secondo il sociologo inglese Frank Furedi, docente all’Università del Kent che ha abbracciato la cultura libertaria da un passato di estrema sinistra, quello che vediamo è invece “la rinuncia delle élite tradizionali e nuove nella società ad assumersi la responsabilità per il benessere della società. Hanno rinunciato a difendere i valori culturali occidentali. Dopo essersi ritirate dal campo di battaglia delle idee, le élite hanno offerto un’opportunità per la crescita di idee e attitudini controculturali e controcorrente. Le masse non hanno un’esistenza reale poiché vivono in un mondo atomizzato, dove c’è poco spazio per l’unità. Quindi la loro influenza è relativamente debole e le persone che affermano di essere i loro leader non sono realmente in grado di mobilitare i loro sostenitori. E’ la crisi del pensiero borghese. Negli anni Sessanta, l’establishment borghese ha perso la classe intellettuale – sia i conservatori che i liberali erano in piena ritirata – e negli anni Settanta hanno perso le generazioni più giovani”.
Per Ryszard Legutko, docente di Filosofia dell’Università Jagellonica di Cracovia, ex ministro dell’Istruzione polacco e autore del libro Demon in Democracy, questo caos risale al Sessantotto. “Sono le masse intese come una collezione di individui isolati, autosufficienti, soddisfatti di sé, senza alcun senso della storia e nessuna identità comune tranne quella che veniva data dall’esterno dagli ideologi”, dice Legutko al Foglio. “La massa dovrebbe essere distinta dalle comunità storicamente formate che hanno un ricco patrimonio culturale e un forte senso di appartenenza. Sono i leader totalitari che vogliono trasformare le società in massa e imporre loro la loro nuova identità ideologica o, una volta che tali masse esistono, ne prendono il controllo. Ma quando una società non assomiglia a una massa, ma è ben strutturata, quando ha un’identità storicamente formata ed è legata a forti pratiche morali, allora i totalitari hanno un lavoro più difficile. Il problema è che le società occidentali moderne hanno aumentato il loro carattere di massa. Sono ben strutturate e storicamente formate, ma ci sono sempre più persone che non appartengono a nulla e possono assumere qualsiasi ideologia idiota. Ciò è avvenuto a seguito dell’ingegneria sociale portata avanti negli ultimi decenni: immigrazione, multiculturalismo, distruzione della famiglia, secolarizzazione”.
In primo luogo, continua Legutko, è la classe intellettuale che rientra in questa categoria. “E’ orgogliosa di essere cosmopolita, aperta, spregiudicata, ma in realtà i componenti di questa classe sono i più vicini alla società di massa. Quindi sono i principali portatori di ideologie totalitarie che ci sono oggi”. Il tema della decadenza è strettamente legato a questo caos. “Prendi la lingua. Un certo tipo di linguaggio – alto, raffinato, elegante – era il marchio di fabbrica della classe intellettuale. La classe intellettuale compete oggi con la massa ignorante in volgarità e di solito vince. Il gergo primitivo e volgare che senti in televisione lo senti anche nel mondo accademico, in politica, nelle scuole. Chiunque non lo usi, è considerato un conformista”. Lo stesso vale nell’istruzione. “Tutte le nozioni e materie elitiste sono state eliminate, latino, greco, retorica. L’inglese non è più insegnato su Keats e Dickens, ma sui media moderni, e si è trasformato in ‘inglese comunicativo’ culturalmente sterile. Persino nella chiesa, la soppressione della liturgia tridentina era dettata dalla supposizione che fosse troppo alta, troppo raffinata, troppo aristocratica ed è stata sostituita da una semplice liturgia quasi protestante in volgare. Vogliamo democratizzare tutto e la democrazia è la regola dell’uomo comune, della massa. Sebbene abbia un senso in politica, è profondamente dannoso per l’arte, l’educazione, le buone maniere, la filosofia”.
Questo ha conseguenze in politica. “Il problema è che i leader di oggi non sono realmente distinguibili dalle masse. Molti osservatori hanno affermato che da qualche tempo le società occidentali non hanno prodotto veri leader, cioè personalità forti che si assumano la responsabilità della direzione verso cui dovrebbe andare la società. I primi ministri e i presidenti sono per lo più mediocri senza statura politica e personale. Le eccezioni sono poche. Non c’è spiegazione facile su quando e in quali numeri emergano le grandi personalità per influenzare le nostre vite, è un mistero della natura. Ma quello che possiamo dire è che la crescente ideologia dell’egualitarismo – dalla politica all’arte e all’educazione, dalla filosofia alla moda – potrebbe creare meccanismi di selezione che scoraggiano le persone dal venire alla ribalta. Il conformismo – che è figlio legittimo dell’egualitarismo – ci fa accettare ciò che è comune e guardare con sospetto ciò che non è comune. Ci è stato insegnato a diffidare di elitarismo, autorità, gerarchia, come presunto preludio al dispotismo. Quindi in cambio abbiamo creato il dispotismo di ciò che è comune. Tutte queste ideologie che organizzano oggi la mente occidentale – dal femminismo al multiculturalismo – sono esempi dell’egualitarismo trionfante trasformato nel dispotismo di ciò che è comune. Non hanno bisogno di leader, ma di burocrati e funzionari”.
Mentre in occidente si scatenava il caos culturale in quel 1968, il Sessantotto dell’Europa orientale fu all’insegna di un autentico vento di libertà. Fu la “primavera di Praga”. “Nell’Europa orientale stavamo sfidando il sistema che era davvero sinistro e chiunque avesse deciso di opporsi si trovò ad affrontare problemi umani fondamentali: tradimento, paura, sacrificio, fedeltà, bene e male” continua Legutko. “Sentivamo di sperimentare la durezza dell’esistenza. Non c’era nulla di appariscente o artificiale quando finivi in prigione, o quando venivi denunciato alla polizia segreta dal tuo amico. L’Europa occidentale era il mondo della stabilità e del benessere. Era qualcosa che – vivendo nel sistema comunista – noi invidiavamo. Ma, alla fine, l’esistenza occidentale ha ceduto alla banalità. E ora noi, polacchi, cechi, ungheresi, avendo vissuto nella società democratica liberale negli ultimi ventisette anni, anche noi cominciamo a sentirlo. Ma alcune delle precedenti esperienze sono ancora in noi come grandi idee e grandi domande che la gente si faceva nei campi della metafisica e della religione. La banalità porta alla disillusione, un atteggiamento comune in Francia o nel Regno Unito: le persone non sono più interessate alla metafisica e alla religione perché non si aspettano alcuna risposta importante. Il 1968 nell’Europa orientale fu diverso da quello dell’Europa occidentale. In Francia, Germania, Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti, il 1968 significò un terremoto culturale: l’abolizione delle strutture e delle istituzioni sociali, l’onnipresenza del linguaggio ideologico marxista e neomarxista, la rivoluzione sessuale. Non tutti questi obiettivi furono raggiunti, ma dopo il Sessantotto nulla fu più come prima. In Polonia, sotto il comunismo sovietico, il ’68 fu un periodo in cui studenti, scrittori, ma anche persone di altre occupazioni, protestarono contro la censura e la dittatura del Partito comunista. In Polonia, iniziò quando il governo bandì la produzione teatrale di uno dei classici della letteratura polacca, scritto nella prima metà del XIX secolo. Il divieto fu il risultato della pressione dell’ambasciatore sovietico che pensava che lo spettacolo fosse antisovietico. Ma i giovani si sollevarono in difesa della letteratura nazionale e del classico del XIX secolo. Questa era l’esatta antitesi di ciò che accadeva a Parigi in quel momento o a Berkeley un po’ prima, in cui l’attacco era diretto contro la vecchia cultura”.
E quell’eco si sente ancora. “Come ogni movimento di massa, il movimento del ’68 fu costruito sulla dicotomia e ha comportato un’onnipresente politicizzazione dell’università e dell’istruzione. I nemici – loro – non erano dittatori, ma professori, scrittori, studiosi che non andavano di pari passo con la rivoluzione; i nemici erano i libri, i vecchi filosofi morti, le teorie passate, tutto ciò che deviava dal movimento. La correttezza politica di oggi ne è una continuazione. Il nemico è ovunque. La nostra cultura è nelle mani dei figli e dei nipoti della generazione del ’68. E uno dei risultati deplorevoli è stato l’annientamento di ogni diversità. Chiunque abbia obiettato è stato messo a tacere. Perciò i figli e i nipoti degli ex rivoluzionari hanno assunto il monopolio nella civiltà occidentale. La nostra cultura è in declino perché ha eliminato tutte le voci di dissenso e tutte le ispirazioni del passato. Viviamo nel mondo della sterilità intellettuale e spirituale. In questo senso, il ’68 è stato una rivoluzione vittoriosa. Fino a quando lo spirito del ’68 non verrà respinto, continueremo a vivere in una cultura sterile. Quello che era fuorviante nel ’68 era il suo carattere divertente. La lotta di classe, la rivoluzione, la società borghese, lo sfruttamento capitalista, l’imperialismo, la sovrastruttura politico-legale, queste parole, così odiate da noi, divennero l’idioma prevalente in Francia o a Berkeley, di solito pieno di riferimenti sessuali e di parolacce. Quando ho sentito che l’università come istituzione era stata attaccata in Francia e negli Stati Uniti per la sua repressione – e io ero uno studente del primo anno dell’università comunista in quel momento – ho pensato che fosse solo uno scherzo, una sorta di intrattenimento come il Festival di Woodstock. Se dovessi dare una diagnosi più ampia di quello che è successo negli anni Sessanta, direi che è stato il momento in cui la società occidentale ha smesso di pensare seriamente ai propri problemi e alla civiltà in generale. Fu il trionfo di un adolescente scarsamente colto, rovinato dalla prosperità e dalla sicurezza, spiritualmente impoverito. Il divertimento e l’ideologia erano le sue linee guida; ed è caduto vittima di entrambi perché non aveva mezzi intellettuali e psicologici per resistere. Il divertimento era così travolgente e così intenso che il suo Blitzkrieg fu immediato. Da quel momento il divertimento e l’ideologia sono riusciti a controllare la mente occidentale. La generazione più ricca della storia ha infatti ceduto alla dittatura del relativismo, ma è un relativismo di un certo tipo. E’ il relativismo che fa dire: non esiste la verità, la bellezza o il bene; tutto dipende dal contesto. Non esiste un canone letterario perché i neri possono sostituire Omero con uno scrittore nero, e le lesbiche possono sostituire Shakespeare con una drammaturga lesbica. Il cristianesimo è una religione come il voodooismo in Giamaica. Ma d’altra parte, ci sono alcune cose che non sono relative. Ci sono cose veramente brutte come l’imperialismo, l’omofobia, il razzismo, il sessismo, ecc. Questo è il motivo per cui la società liberale ha sviluppato un potente sistema di tabù, di proibizioni e restrizioni. Questa connessione tra relativismo e dispotismo è ovvia. Il paradosso è che, avendo sempre meno libertà, crediamo ancora che viviamo nelle società più libere che siano mai esistite. Questa auto-illusione è un’altra conseguenza del ’68”.
Questa banalizzazione, conclude Legutko, ha portato a una nuova forma di oclocrazia o di governo della massa. “Platone e Aristotele parlarono di una forma degenerata di democrazia. E’ vero che oggi c’è molta barbarie e che gran parte dell’élite vi contribuisce e sembra addirittura ispirarla. Quindi, probabilmente, si può dire che stiamo assistendo a un revival dell’oclocrazia – linguaggio scadente, ignoranza spudorata, disprezzo per la storia e la cultura, anti-filosofia, selvaggio anticlericalismo”.
Ma ci sono due elementi nuovi se confrontati all’oclocrazia nei tempi antichi. “Il primo è l’ideologia: quei barbari, come gli attivisti studenteschi che sono usciti dall’inferno nei campus, hanno le loro menti organizzate attorno a una serie di semplici idee progressiste; quindi oltre a essere matti sono anche ideologici. La seconda differenza è ciò che ho detto sopra, vale a dire gli stretti legami dei nostri barbari con l’élite; non sono estranei o persone del margine che hanno deciso di ribellarsi e rovesciare l’ordine esistente; sono abbastanza ricchi, hanno una certa educazione formale (che non impedisce loro di essere ignoranti o addirittura stupidi), e sono nel bel mezzo della civiltà tecnologica che sembra controllare le nostre menti. In altre parole, è una versione chic dell’oclocrazia”.
La migliore spiegazione invece per Julius Krein è che “il consenso politico neo-liberale dopo la Guerra fredda si sta sfilacciando perché non è riuscito a mantenere le promesse. Solo il cinquanta per cento di quelli nati nel 1980, rispetto al novanta per cento di quelli nati nel 1940, dovrebbe guadagnare più dei genitori. Nonostante tutti i discorsi su ‘diversità’ e ‘inclusione’, la disuguaglianza economica e la stratificazione sociale si sono intensificate e la nostra ‘meritocrazia’ si è fatta più ristretta, più rigida e più conformista, spesso facendo affidamento sul massiccio debito dei prestiti studenteschi. I dibattiti politici sembrano molto polarizzati in pubblico, tuttavia è probabile che un esercizio di consenso guidato dai donatori e dai lobbisti abbia successo. Molte delle più importanti decisioni politiche sono state rimosse dal processo politico, relegate a ‘esperti’ che troppo spesso sono diventati incompetenti. E’ abbastanza sorprendente, quindi, che un numero significativo di persone stia cercando alternative alle politiche fallite degli ultimi decenni. D’altra parte, in realtà è la ‘fine della storia’ dell’establishment ad aver assunto il carattere di ideologia. I suoi sostenitori continuano a richiedere l’adesione al programma come un imperativo tautologico. Agli elettori viene detto che ‘è quello che siamo’ e ‘non c’è alternativa’, indipendentemente dal fatto che queste politiche funzionino davvero”.
Come dicevamo, la folla prende il sopravvento anche nelle accademie. “E’ inevitabile che l’università sia un punto fermo di questo malcontento. Ideologicamente, l’università è un agente di uguaglianza, democrazia e opportunità, un luogo di libero pensiero e di ricerca imparziale della conoscenza. In realtà, il prestigio culturale e il valore economico delle università si basano sulla selettività, l’esclusione e la gerarchia. Allo stesso tempo, le credenziali che forniscono sono importanti per qualsiasi conoscenza o abilità reale e sono particolarmente sensibili alle istruzioni in materia di gestione, conformità e correttezza politica. Sotto gli slogan del colpire il capitalismo o qualsiasi altra cosa, l’ethos del ’68 è andato verso la rimozione di qualsiasi vincolo che non fosse il consumo personale e l’espressione individuale, delegittimando in tal modo la comunità politica. E quello che Tom Wolfe chiama ‘radical chic’ è maturato in ‘risveglio della società’. In altre parole, la fine degli anni Sessanta potrebbe essere stata l’inizio dell’abbandono della sinistra mainstream alla critica politica ed economica in favore di una posa estetica. E per la maggior parte non è meno confuso”.
Questa confusione è all’origine della crisi del liberalismo. “Oggi la Cina, la Russia e la Corea del Nord sono più forti o più deboli rispetto a quando la ‘fine della storia’ fu proclamata più di venticinque anni fa? Gli Stati Uniti e l’Europa sono in ascesa o in declino? Quindi, anche se uno accetta gli obiettivi del cosiddetto ordine internazionale liberale, ha fallito miseramente. Per decenni, il più grande beneficiario di questo ‘liberalismo’ è stata la Cina. Qualcosa come il quaranta per cento dei bambini americani sono nati fuori dal matrimonio, l’aspettativa di vita sta calando e vasti segmenti della popolazione stanno affrontando una crisi di dipendenze da oppioidi. E in un’epoca in cui l’autocritica ‘democratica’ sembra tanto più necessaria, le opinioni sono solo più rigidamente controllate, non dallo stato ma dal settore privato. Ma piuttosto che affrontare questi gravi problemi, le nostre élite passano il loro tempo moralizzando contro il ‘populismo’. Sospetto che oggi sentiamo parlare così tanto di ‘liberalismo’ perché nessuno crede veramente in ciò che è diventato. Questa è la vera crisi del liberalismo”.
Wilfred McClay, liberale vecchio stampo, docente alla Oklahoma University e storico delle idee, parla invece di una “convulsione storica”: “La reazione non è la stessa ovunque, e non è unificata, perché è quasi per definizione un fenomeno localizzato. E non si dovrebbe romanticizzare questa reazione. L’invocazione del ‘populismo’ non è utile. Mette insieme troppe cose e serve come una astrazione che interferisce con la sua comprensione. Noi occidentali abbiamo perso il common sense, nel senso più letterale di quel termine. Abbiamo perso le premesse culturali comuni, che per la maggior parte delle società umane sono state approvate e hanno adottato, più o meno ufficialmente, un’esaltazione della volontà umana oltre i limiti delle religioni bibliche e persino oltre i dettami della natura”. Questa esaltazione della volontà può assumere due forme diverse. “Può liberare radicalmente l’individuo da tutti i doveri, obblighi e vincoli, interpretando la ‘libertà’ come il diritto di inventare la propria concezione della realtà stessa. Ma può anche essere interpretata come un’affermazione della capacità della generazione di leader esistenti di avere un senso comune. Una libertà radicale produrrà un livello profondo di non-libertà. E un futuro in cui gli unici punti in comune applicabili saranno quelli imposti dalle tecniche di intimidazione”.
In senso più ampio, Ortega y Gasset continua a essere un pensatore pregnante: “Nell’individuare le minacce all’identità umana e alla libertà imposte dal crescente potere dello stato, della specializzazione e così via”, continua McClay conversando col Foglio. “Penso che la grande intuizione di Ortega per il nostro tempo riguardi quello che chiamò il señorito satisfecho, l’uomo soddisfatto, che avrebbe potuto essere chiamato l’uomo di Bruxelles, e che nel mio paese sarebbe il tipico laureato delle università d’élite, il tipo di persone che dirige le istituzioni permanenti al governo, i giornali di prestigio, le reti di trasmissione pubblica e così via. In quanto tali, esprimono il potere culturale contro cui è diretta l’attuale insurrezione populista. C’è un libro recente molto interessante e importante di uno storico americano di nome Fred Siegel, intitolato The Revolt Against the Masses. How Liberalism Has Undermined the Middle Class, che ritengo sia molto rilevante qui. Sostanzialmente Siegel sostiene che è stata la disposizione errata e imperdonabilmente arrogante delle classi d’élite che ha prodotto la reazione che ora vediamo. In un certo senso, come suggerisce il suo titolo, è un’inversione di Ortega; ma in un altro senso, è una elaborazione di Ortega”.
McClay concorda con Legutko che questa convulsione abbia a che fare con il terremoto degli anni Sessanta. “Per prima cosa, le università non si sono mai riprese dagli anni Sessanta e la loro trasformazione in istituzioni guidate dal consumismo piuttosto che dalla virtù intellettuale è emblematica della perdita di ciò che ho chiamato ‘senso comune’. Le università dovrebbero essere depositarie di una saggezza e di un prezioso patrimonio a cui gli studenti dovrebbero essere iniziati, come parte adeguata della loro educazione. Le università hanno una fonte per la loro autorità, a parte il loro controllo sull’accesso a posizioni elevate e posti di lavoro ben retribuiti. La maggior parte delle istituzioni non è in grado di offrire un curriculum coerente di studi e poche addirittura ci provano. La parte umanistica delle università è costantemente degenerata in una palude di emotività e politica dell’identità. Non è affatto una coincidenza che tanti dei marxisti culturali della varietà della Scuola di Francoforte parlino con toni dispregiativi del ‘senso comune’, perché l’obiettivo della ‘teoria critica’ è di problematizzare e quindi di mettere in secondo piano ogni norma culturale affermativa. A livello sociale, la disintegrazione della vita familiare ha probabilmente radici più remote rispetto agli anni Sessanta, ma quel decennio ha rappresentato un importante spartiacque. L’ubiquità del divorzio che oggi vediamo ovunque in occidente era inimmaginabile negli anni Cinquanta; ora è così comune che non posso mai dare per scontato, parlando ai miei studenti nel cuore dell’America, che abbiano qualche esperienza di una famiglia intatta. Ciò ha conseguenze politiche. Charles Murray ha osservato che le classi inferiori sono quelle che pagano il prezzo per questo collasso delle norme sociali e suggeriscono che le comunità che hanno sofferto di più dagli spostamenti a causa della globalizzazione del commercio e del lavoro mancano anche delle risorse culturali – in particolare la religione e la vita familiare stabile – per superare tali disagi. Da qui la nuova piaga dell’abuso di droga che affligge soprattutto queste comunità in tutta l’America”.
Si apre qui la crisi del liberalismo, secondo McClay. “Il liberalismo del XIX secolo giustappone la libertà a tutti i tipi di vincoli sociali, culturali e religiosi sul comportamento. La libertà di cui parlavano i Padri Fondatori americani era una libertà ordinata, in cui le istituzioni liberali come il mercato erano costrette da istituzioni illiberali come la chiesa e la famiglia, che possedevano l’autorità morale e il potere di imporre obblighi e doveri all’individuo. Ora non esiste una forza di controbilanciamento e la libertà è diventata come una crescita cancerosa. E la nozione di una forma sconfinata di libertà individuale si trasforma inevitabilmente in una tirannia senza limiti, precisamente rovesciando i limiti della libertà che sono essenziali per il benessere della persona e che proteggono la dignità di quella persona contro le depredazioni di altri, incluso lo stato. Nella misura in cui ignora quel fatto e immagina l’individuo come il più libero quando in assoluto isolamento, il liberalismo è perverso e pernicioso. C’è bisogno di un liberalismo che ripristini ed elevi il ‘senso comune’, che immagini la persona come intrinsecamente connessa con gli altri e definita in larga misura dagli ingombri che derivano dalle condizioni di nascita e comunità. Dobbiamo trovare la via del ritorno”.
András Lánczi è una creatura rara in Ungheria. E’ un liberale studioso di Leo Strauss (partecipò nel 2005 a un convegno del Foglio dedicato al pensatore ebreo di origini tedesche emigrato negli Stati Uniti) e un filosofo politico che dirige l’Istituto di scienze politiche della Corvinus University du Budapest, in Ungheria. “La follia, come già concepita da Platone, nasconde l’irrazionalità di certi comportamenti e attività umane” dice Lánczi al Foglio. “Il grande paradosso della moderna cultura occidentale, che intende perfezionare il suo impegno per la razionalità, è che sta diventando sempre più folle, cioè perde il controllo sulle proprie basi naturali e sull’arte con cui ha arredato il mondo con strumenti tecnologici (clonazione, intelligenza artificiale, cibi pieni di sostanze chimiche ecc.). Oggi ‘follia’ significa perdita della realtà misurata dal numero sempre crescente di relazioni fittizie che l’uomo crea con gli altri uomini. Abbiamo individui completamente ridotti al loro ego privo di carattere e di qualsiasi qualità. Tutto ciò che sanno su se stessi è che sono uguali ad altri ego. Ma poiché l’uomo è un essere comunitario, questi ego si trovano inevitabilmente in un contesto che è fornito da un sistema chiamato ‘democrazia’ che accentua politicamente l’uguaglianza formale di tutti gli ego. E’ l’idea della media che è alla base del governo. Le società di massa sono paralizzate dalla mancanza di un’autentica leadership, la cui funzione principale è la definizione degli obiettivi per una particolare comunità. Poiché le masse negano il carattere agli individui, la democrazia nasconde la vera funzione del potere, cioè l’impostazione di obiettivi appropriati per la comunità. Apparentemente le masse governano in una democrazia, ma non lo fanno, la tensione tra la volontà degli individui di una massa senza volto, principalmente destinati a consumare, e il bisogno naturale di stabilire obiettivi che tengono insieme le comunità, minaccia la sopravvivenza dell’uomo occidentale privandolo di una risposta su qual è il significato della vita”.
La noia è in agguato, nel ventre molle delle democrazie. “Oggi le moderne democrazie europee, inclusa la Ue, stanno eliminando obiettivi e politiche adeguate. Di conseguenza, le masse sono altrettanto divise quanto le élite dominanti, perché le masse non hanno mai avuto idee politiche proprie. Fanno solo eco a ciò a cui sono indottrinate. Se le masse sono insoddisfatte o arrabbiate, demoliscono o distruggono, e facilmente sono agganciate dalla demagogia. Le masse stesse non hanno mai governato, esprimono solo le loro opinioni, scelgono tra i candidati democratici, si prestano facilmente a manipolazioni, cambiano rapidamente i loro atteggiamenti, sono egoiste, ma di solito sono divise in una moderna società competitiva, quindi tutte le loro debolezze sono controbilanciate dalle stesse qualità di altre formazioni della stessa massa. Dal punto di vista dell’élite, questo è un contesto assolutamente cinico. Oggi le masse sono divise politicamente, qualcosa che Ortega y Gasset aveva preso in considerazione. La nostra lingua è stata avvelenata dall’ideologia della democrazia moderna che è la prima forma di governo che si dichiara ‘profana’. I regimi profani soffrono della mancanza di un’autentica leadership, perché negano sia il governo tradizionale o basato sull’esperienza, sia la necessità di un sostegno trascendentale di qualsiasi regola al fine di offrire una visione del significato della vita espressa dalla cultura e animata da obiettivi politici. Le masse sono semplicemente incapaci di trattare i loro desideri in termini di obiettivi politici, soggetti a manipolazioni dell’élite. Le masse sono politicamente innocue finché non vengono salvate dalla miseria e dalla noia. In senso politico, le masse giudicano e agiscono sempre come agenti di un potenziale governo oclocratico. I leader senza obiettivi e messaggi politici distinti potrebbero produrre condizioni politiche squilibrate e una vita sociale caotica o la stasi come nella visione di Tucidide. La regola della massa non può durare a lungo, forse ore o giorni, ma non per molto tempo, perché per il governo serve una regola persistente che ha bisogno di idee, struttura, coordinamento, cioè creazione di potere che significa azione concertata. Quindi la questione più delicata è la relazione tra l’élite e le masse. L’élite o l’aristocrazia dovrebbe essere in grado di fornire una condizione mentale e fisica per una comunità che tenga unite le persone. Questo è il motivo per cui gli obiettivi sono così rilevanti. Ma gli obiettivi devono essere tradotti nella lingua degli uomini di massa, e chi governa deve avere un’autorità per far credere alla gente che gli obiettivi sono preziosi e meritano il loro sacrificio. Oggi abbiamo una forma davvero nuova, la regola della massa, ed è Facebook e simili in cui il carattere senza volto dell’uomo massa è combinato con l’efficienza nel diffondere qualsiasi informazione, vera o falsa, a un numero incredibile di persone senza alcun controllo di prudenza politica. Facebook è il simbolo della regola della massa senza aspirare veramente a governare. La tecnologia sembra migliorare la libertà individuale, ma quando le opinioni sono facilmente aggregabili, potrebbe sfruttare l’energia del potere di coloro che governano e porre limiti all’azione ragionevole”.
In un senso più stretto, la crisi che abbiamo vissuto almeno dal 2008 è fortemente connessa con le convulsioni degli anni Sessanta. “In primo luogo, questo è stato il decennio in cui la sinistra europea ha avuto una visione completa in merito a ciò in cui crede e raccomanda a tutti gli altri”, conclude il filosofo ungherese. “Era radicato nelle concezioni marxiste: la società senza classi è desiderabile e possibile. In secondo luogo, la liberalizzazione generale della società potrebbe anche compiere un passo importante negando ogni autorità, le tradizioni e lo stato naturale delle cose. L’autorità deve essere rimossa da tutti i percorsi della vita sociale, più pericolosamente dall’istruzione; le tradizioni sono semplici ostacoli al progresso; e ciò che è naturale come la famiglia è stato reso sospetto come fonte di emancipazione sociale di ogni individuo. L’uguaglianza divenne la massima priorità del giudizio morale, la competizione del libero mercato fu idealizzata come la chiave del benessere generale o della ‘giusta’ redistribuzione, e c’era una fede generale nell’internazionalismo. Cinquant’anni dopo, l’idea di uguaglianza è degenerata in un puro egualitarismo che schiaccia l’idea di grandezza, l’attività economica è stata globalizzata con uno sviluppo tecnologico incontrastato o indiscusso e l’internazionalismo comunista è stato sostituito da una società di massa globalizzata con un’élite liberale al vertice. Quello che oggi è definito ‘populismo’ è semplicemente una questione sollevata da una nuova élite del vecchio degli anni Sessanta: credi davvero che le tue idee siano sostenibili? Il potere è aperto alla competizione, anche se i liberali perdono la concorrenza nell’interpretazione dello stato delle cose. Lo choc della Seconda guerra mondiale è finito, così è la promessa liberale moderna”.
Patrick J. Deneen, autore di Why Liberalism Failed, vede sorgere una “nuova aristocrazia”. “E ha le sue radici alla fine degli anni Sessanta, quando la ‘contro-cultura’ è diventata ‘anti-cultura’” conclude Deneen. “E’ ciò che rimane dopo la distruzione delle norme di vecchia data e la formazione sociale che ha portato a istituzioni stabili come matrimonio, famiglia (incluso il parto), religione e ‘società civile’. In nome della liberazione da quelle norme che ci modellano e che sono considerate oppressive, abbiamo creato una società sempre più senza regole le cui parole d’ordine sono frasi come ‘fai e basta’ e ‘vivrai solo una volta’. Un individualismo più radicale sia nella sfera economica che in quella sociale è diventata la nuova norma, e questo, mentre avvantaggia alcune persone – ‘la nuova aristocrazia’ – si è rivelato devastante per ‘le masse’. La grande domanda che dobbiamo affrontare oggi è se sia possibile ristabilire alcune delle forme culturali che promuovono il matrimonio stabile, la famiglia, la comunità e un senso di obbligo verso le generazioni future. Gli anni Sessanta hanno dimostrato che è abbastanza facile abbattere le norme culturali di vecchia data; i prossimi anni Venti potrebbero essere il decennio che in cui scopriremo se è possibile costruire qualcosa di nuovo da zero, ma potrebbe essere troppo tardi per salvare il liberalismo occidentale”.
In questa babele avanza allora un caos culturale che sta portando al dissanguamento delle democrazie, avverte lo storico americano Victor Davis Hanson. “Alexis Tocqueville ci ha avvertito sulle società consenzienti in cui la maggior parte delle persone preferisce vivere come schiavi e uguali piuttosto che come diseguali e liberi” ci dice Hanson. “La gente appare stufa di una élite sermonizzante e ipocrita da quando gli anni Sessanta strapparono l’impiallacciatura della società colta. Ma ancora più importante, la generazione degli anni Sessanta è tale che gran parte della follia deriva dalla ostentazione della virtù e dalla confusione derivante dall’assurdità di coloro che diventano gli stessi oggetti del loro odio precedente. Il liberalismo ha difficoltà a trattare con il lusso e la generosità del capitalismo del libero mercato che dà potere al cittadino oltre a un ampio tempo libero e alla soddisfazione dei suoi desideri. E la maggior parte di loro, senza le briglie della tradizione, della religione e della famiglia, semplicemente non ce la fa”.
La nuova oclocrazia su cui fermenta la nuova rabbia, conclude Hanson, “è una piramide che ha in cima una élite virtuosa che sovvenziona le classi inferiori e che odia la classe media che non ha il romanticismo dei poveri e la cultura dei ricchi. Calibrata sul declino demografico, la secolarizzazione, i confini aperti e il politicamente corretto, questa società è votata al suicidio”.