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Com'è il lavoro a 5 stelle?

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Reddito di cittadinanza e dirigismo. Girotondo di opinioni sul programma di governo grillino

Un approccio lisergico-keynesiano

il commento di Mario Seminerio, investitore professionale
  
Uno dei punti qualificanti delle elaborazioni del M5s in materia di politica del lavoro è quello espresso dal ministro in pectore, Pasquale Tridico, che vorrebbe far iscrivere al collocamento almeno un milione di inattivi scoraggiati, aumentando in tal modo il tasso di disoccupazione e l’output gap, cioè la distanza tra Pil potenziale ed effettivo, ed ottenere per questa via (secondo lui) la possibilità di far più deficit per circa 19 miliardi. Un vero magheggio, considerato che il costo del reddito di cittadinanza è stato quantificato dai grillini in 17 miliardi, e che servono anche 2 miliardi per potenziare i centri per l’impiego, ecco che magicamente l’operazione sarebbe interamente “autofinanziata”, nel senso di ulteriore deficit. Cioè, basta pagare gli scoraggiati per iscriversi al collocamento e frequentare dei fantomatici e taumaturgici corsi di formazione, ed ecco tanti bei soldini a deficit. E’ l’uovo di Colombo, un capolavoro di reverse engineering: ridurre “per legge” (e sussidio) gli scoraggiati e sperare che i medesimi riescano a reimpiegarsi. La cosa più suggestiva è che è lo stesso Tridico a non credere alle virtù del collocamento: egli ha recentemente replicato alle mie obiezioni dichiarando candidamente che “la nostra idea implica l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro, ma non è necessario il collocamento. Il riassorbimento dei disoccupati non deriverebbe tanto da ‘collocamento e formazione’, bensì dal maggior deficit strutturale consentito al governo che stimolerebbe la domanda aggregata e di conseguenza l’occupazione: la riattivazione degli scoraggiati sarebbe incentivata, oltre che dal sussidio, dalla ‘prospettiva occupazionale’ connessa all’attuazione di politiche espansive, non tanto dalla maggiore impiegabilità che deriverebbe dai corsi di aggiornamento”.
In sintesi e in soldoni, basta fare più deficit e gli inoccupabili per profilo professionale inadeguato cesserebbero di essere tali, perché la vibrante ripresa indotta dal reddito di cittadinanza riassorbirebbe la disoccupazione. Qui si nota l’approccio lisergico keynesiano (sperando che lo spirito di Keynes non se ne abbia a male), in base al quale tutto è superabile con un impulso fiscale espansivo, che per definizione avrebbe un moltiplicatore stellare. Che poi è l’essenza del populismo: proiettili d’argento per problemi complessi. La bolla italiana si sta gonfiando, occhio allo scoppio.

Il commento di Pietro Ichino, giuslavorista alla Università di Milano e senatore Pd IL NON DETTO DEL PROGRAMMA: Art.18

Nel programma del M5s in materia di politica del lavoro salta all’occhio un eccesso di statalismo: allo stato si affida il compito di incrementare direttamente la domanda di lavoro con gli investimenti pubblici; dallo stato le imprese, particolarmente quelle meridionali, devono aspettarsi i finanziamenti per i propri investimenti attraverso una apposita “banca pubblica”; sulle strutture pubbliche e soltanto su di esse si punta, con un investimento di due miliardi, per migliorare i servizi a lavoratori e imprese che si cercano nel mercato; e, soprattutto, su di uno “Stato mamma” molto generoso – e non su di una assicurazione, fondata sui contributi versati – tutti devono poter contare, secondo il M5s, per 800 euro al mese esentasse, finché il lavoro non si trova.

In questo programma, però, non va sottovalutato il “non detto”, quello che in esso non si trova. Sorprendentemente, il M5s non propone di smontare la riforma del lavoro del 2015, e tanto meno quella del 2012. Il vecchio articolo 18, la bandiera della sinistra-sinistra, non è menzionato da nessuna parte. Questa omissione può non colpire il cittadino comune; ma non può non saltare all’occhio di chi abbia avuto la ventura di sorbirsi negli ultimi tre anni, in Commissione e in Aula, gli interventi infuocati del senatore Puglia e della senatrice Paglini contro ciascuno dei passaggi della riscrittura del diritto del lavoro che la maggioranza di centrosinistra andava compiendo.

La realtà è che su questo punto, nel corso dell’ultima legislatura, si è determinata una divergenza tra i parlamentari del M5s: erano in molti a concordare, pur non dicendolo apertamente, con la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, la quale sosteneva apertamente le buone ragioni della riforma dei licenziamenti realizzata tra il 2012 e il 2015. E quando si è trattato di mettere nero su bianco il programma elettorale gli strateghi del movimento hanno evidentemente ritenuto che su questo punto non fosse il caso di promettere ritorni all’indietro. Della sinistra-sinistra, dunque, il M5s sembra avere accettato soltanto metà dell’eredità programmatica: quella dello statalismo, di un forte intervento pubblico nell’economia. Ma non la metà che punta principalmente su avvocati e giudici per la promozione del benessere dei lavoratori. Se è davvero così, questa è una buona notizia per il Jobs Act: oggi in Parlamento, dopo tante proteste, a volerlo smantellare ci sono soltanto i quattordici deputati e i quattro senatori di Leu.

Il commento di Stefano Fassina, deputato Liberi e uguali

 Finalmente un programma antiliberista

Sul lavoro, l’agenda abbozzata dal prof. Tridico va nella direzione giusta, nel contesto del programma economico completato dalle proposte dei prof indicati al Mef (Andrea Roventini) e al Mise (Lorenzo Fioramonti). Finalmente, viene riconosciuto che quantità e qualità di lavoro sono problemi essenzialmente macroeconomici, non micro. Vuol dire che dipendono dal livello dell’attività produttiva, non dalla “flessibilità”, newspeak liberista per nascondere la precarizzazione. Vuol dire che per promuovere piena e buona occupazione va azionata la leva della domanda interna, sacrificata dalle politiche mercantiliste dell’eurozona. E’ impianto keynesiano, opposto a quello liberista sbandierato da Veltroni-Ichino al Lingotto e poi finito nel Jobs Act. E’ mortificante per chi viene da sinistra constatare la necessità dell’avvento del M5s per una lettura adeguata sul punto distintivo, cardinale, del lavoro. Nel merito:

1) il “reddito di cittadinanza”, versione allargata (per beneficiari) e innalzata (per importi) del Rei, è un istituto lavorista, non assistenzialista come raccontato, quindi condivisibile. Purtroppo, il problema delle coperture non può essere aggirato con l’ampliamento del Pil potenziale. Oltre al Pil potenziale, rivela ahinoi il debito pubblico effettivo;

2) gli investimenti pubblici, in particolare nel Mezzogiorno, sono la variabile chiave. La riserva del 34 per cento al sud è insufficiente. Noi abbiamo proposto la “clausola Ciampi”, ossia il 45 per cento di tutti gli investimenti pubblici alle regioni meridionali, accompagnati da assunzioni mirate nelle pubbliche amministrazioni. Condividiamo la necessità di una politica industriale discrezionale, ma manca una holding pubblica di orientamento dei piani industriali delle aziende partecipate dallo Stato. La decontribuzione selettiva per le aziende private è insufficiente;

3) il salario orario minimo va chiarito. Può essere strumento di dumping sociale. Va definito come compenso orario minimo, “equo compenso” dedicato alle attività autonome e professionali, non al lavoro subordinato al quale si devono applicare i contratti nazionali collettivi;

4) fondamentale la valorizzazione del dialogo sociale nel “patto di produttività programmata”, ma anche qui i dettagli sono decisivi per evitare di ricadere nel fallace mantra liberista che scarica la responsabilità della produttività totale sulla produttività dei lavoratori nella dimensione aziendale, invece che sugli investimenti e sui fattori di contesto;

5) pienamente condivisibile, era nel programma di Leu, l’accenno all’obiettivo strategico della redistribuzione dei tempi di lavoro.

Il commento di Filippo Taddei, economista alla Johns Hopkins University
 Scheda 5 di 8

Cinque idee ambigue (o antistoriche)

In politica esiste il confronto, il dissenso, perfino la polemica. Qualunque scelta si faccia, bisogna però essere chiari. Le idee sul lavoro di Tridico sul blog a Cinque stelle sono invece una combinazione tra ambiguità di finanza pubblica ed incomprensione di quello che è cambiato nel mercato del lavoro italiano in questi anni. Potrebbe trovarsi molto più in linea col Pd di quanto non sospetti. Quando abbiamo scritto il Jobs act e quel che ne è seguito, dal 2014 al 2017, ci siamo chiesti ossessivamente come sostenere il lavoro nell’Italia di oggi, non in quella delle nostre credenze. Molto brevemente: abbiamo riconosciuto che, nella realtà del mercato del lavoro italiano, i lavoratori sono già molto più mobili di quanto pensiamo, con anzianità media inferiori ai 6 anni anche nelle imprese con più di 15 addetti. Di fronte a carriere lavorative molto più saltuarie abbiamo ritenuto che il modo più efficace di tutelare le fragilità dei lavoratori nella mobilità era rendere più mobile anche la tutela, spostandola dal posto di lavoro a tutte le fasi del mercato del lavoro.

La prima idea di Tridico è tanto ambigua nei suoi effetti quanto discutibile nella sostanza. In breve, sostiene che il reddito di cittadinanza potrebbe permettere la riattivazione di 1 milione di lavoratori che, aumenterebbe il livello di reddito potenziale. La spesa per riattivarli non aumenterebbe il deficit (strutturale) perché il reddito potenziale crescerebbe. Aumenterebbero però certamente il deficit e il debito effettivo (quello vero, non potenziale). E’ un po’ come rassicurare la banca che vede il nostro debito aumentare rivendicando il reddito che si potrebbe avere (potenziale) invece di quello (effettivo) che si possiede. Probabilmente, in questa nuova fase politica, vale la pena superare l’ambiguità e chiamare le cose col loro nome. Si vogliono spendere un ammontare di risorse senza precedenti (19 miliardi), farlo a debito, e sperare che questo abbia un effetto clamoroso per cui non c’è evidenza: riportare cioè 1 milione di persone nel mercato del lavoro, neanche necessariamente al lavoro.

La seconda, quella di fare investimenti produttivi nei settori più capaci di creare occupazione, non è una proposta ma un desiderio che cela una piccola contraddizione. Tutti sappiamo quanto la nostra Pa sia incapace di attivare in tempi brevi investimenti pubblici.

La terza, il salario minimo orario, è una proposta del Pd, già nella legge delega che ha istituito il Jobs Act e inattuata per una (erronea) scelta del Pd, vittima di un malinteso desiderio di “non svilire la contrattazione sindacale”.

La quarta, quella del patto di produttività, non è altro che la continuazione della combinazione di due provvedimenti del governo del Pd: industria 4.0 e detassazione permanente di premi di produttività per tutti i lavori che guadagnano fino a 55 mila euro lordi.

La quinta, quella di affrontare la robotizzazione con la riduzione dell’orario a parità di salario, è semplicemente antistorica perché inverte la causa con l’effetto. La storia del capitalismo, dopo la fase primordiale, è fatta di riduzione dell’orario di lavoro raggiunta attraverso la contrattazione, in cui la legge ha un ruolo residuale. Perfino l’ultimo tentativo concreto in questo senso, quello dei metalmeccanici tedeschi, è una iniziativa nata dalla contrattazione.

Il dibattito pubblico è caratterizzato da una profonda confusione tra la serietà dei problemi che viviamo e la velocità con cui questi cambiano. Chi si candida a risolverli non può nutrire la stessa ambiguità.




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