SOGNO DI UNA NOTTE D’INVERNO
Le notizie false sono solo la punta dell’iceberg della disinformazione. Le piattaforme social e di messaggistica, come Facebook e WhatsApp, non hanno gli obblighi degli organi di informazione. Il risultato? Il caos. L’Unione Europea ha creato un gruppo di studio per affrontare il tema. Ecco le riflessioni di chi ne fa parte
Ho avuto il privilegio di entrare a far parte del gruppo creato dalla Commissione Ue con uno scopo preciso: presentarle “raccomandazioni” sul modo di contrastare il fenomeno delle fake news. Siamo 37, da tutti i Paesi europei e da (quasi) tutti i settori coinvolti: rappresentanti del Big Tech, dei media tradizionali, delle tv, dei consumatori o studiosi accademici. Stiamo lavorando di buon passo da un paio di mesi e dico subito che il primo impegno che ho preso è stato non raccontare cosa viene detto nel gruppo, da parte di chi e perché. Condizioni da rispettare perché il gruppo possa lavorare e ciascuno si senta libero di esprimersi. Posso però iniziare a dire quello che sto imparando su questo fenomeno che ha pesato sulle ultime elezioni americane. Il primo punto è che non basta chiamarle fake news (notizie false), è solo un aspetto di un fenomeno più vasto che include disinformazione, notizie vere ma diffuse in modo distorto e fenomeni al confine. Ma le notizie chiaramente “fake” pongono uno dei problemi fondamentali: l’asimmetria di responsabilità fra i diversi attori del panorama dell’informazione. Una foto di Maria Elena Boschi che partecipa ai funerali di Totò Riina, condivisa su migliaia di profili sui social network (è successo), è sicuramente posticcia e resta un caso di scuola di fake. È esattamente il tipo di contenuto che esporrebbe un settimanale come 7 o un quotidiano come il Corriere della Sera a una (per noi costosissima) causa penale per diffamazione e civile per danni, se la pubblicassimo senza precisare che si tratta di un falso. Invece dei social network come Facebook o Twitter e piattaforme come WhatsApp (controllata da Facebook) o Telegram possono far circolare la foto manipolata di Boschi senza temere nulla: né una causa dall’interessata, né una sanzione da qualche organismo regolamentare.
La ragione, formalmente, è semplice: le piattaforme social o di messaggi non sono organismi d’informazione. Non sono tenute a intervenire per cancellare una foto o un articolo diffamatori, né ad avvertire che il contenuto può essere fuorviante. Non lo sono, in teoria, per la stessa ragione che fa sì che una società autostradale non sia tenuta ad avvertire i guidatori che sulla sua rete stanno viaggiando camion pieni di materiale tossico o pericoloso. Deve mantenere le corsie ordinate e senza buche. Non risponde di chi ci viaggia o di cosa trasporta. Argomento addotto spesso per spiegare perché la responsabilità legale dei social, a oggi, è quasi inesistente. Ma è un argomento dalle gambe corte: se i social non sono organizzazioni paragonabili a una testata giornalistica o televisiva, perché Facebook ha prima assunto, poi licenziato, poi dovuto riassumere migliaia di “curatori” (noi diremmo: redattori) in teoria per controllare ed, eventualmente, intervenire sui contenuti che viaggiano sulla rete? È arduo anche per un colosso digitale da 500 miliardi di dollari di capitalizzazione sostenere di non dover essere soggetto ad alcuna forma di responsabilità legale sui contenuti diffusi. A maggior ragione, se aumenta i propri ricavi grazie ad essi e paga un esercito di “curatori” per (in teoria) controllare quei contenuti.
Eppure oggi questo è esattamente ciò che accade: i social network sono finanziariamente beneficiari, ma giuridicamente irresponsabili, alla lettera, anche dei contenuti più tossici che fanno pervenire sugli smartphone di milioni di persone durante una campagna elettorale. E non è affatto facile che questa situazione cambi tanto presto: l’opposizione, ammantata dietro un presunto principio di libertà di espressione, è fortissima in angoli diversi delle società occidentali. Questo naturalmente è solo uno dei problemi e dei paradossi legati al fenomeno delle fake news e della disinformazione. Ce ne sono tanti altri, per esempio questo: fino a ieri le fake news e le sue consorelle avevano viaggiato soprattutto su Facebook, piattaforma accessibile e aperta a tutti. Di recente invece circolano molto in gruppi chiusi di WhatsApp, dove rispondere con informazioni diverse e corrette è molto più difficile. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo. E magari questo è solo l’inizio.