di Enzo D'Errico
Strano destino per il Movimento, una formazione che nel suo programma nemmeno una volta cita la parola «Mezzogiorno»
Tutto e subito: questo chiedono gli elettori del Mezzogiorno al nuovo Parlamento. E questo dovranno garantire i Cinque Stelle, se ne saranno capaci, a chi ha loro tributato un plebiscito territoriale senza precedenti. Basta con le alchimie di un potere consunto dalla Storia, addio alle promesse di un domani migliore: vince la logica del «qui e ora», estranea alle chiacchiere dei salotti buoni ma presente (spesso in maniera drammatica) nella vita quotidiana dei cittadini meridionali, compresa tanta parte di un ceto medio impoverito dalla crisi e privo di speranze per il destino dei suoi figli. Il voto del 4 marzo estirpa definitivamente le radici ideologiche del secolo scorso e traghetta la politica italiana nel nuovo millennio, in un mondo dove i verbi si coniugano soltanto al presente perché il futuro – che invece era spina dorsale delle dottrine politiche novecentesche – è una nebulosa che inquieta e spaventa.
Viene meno la ragione sociale della sinistra storica – ricordate il mitologico Sole dell’Avvenire? – che collassa come un palazzo di sabbia, vittima della sua incapacità d’intercettare i bisogni reali delle persone, preda ormai di un autismo che la imprigiona dentro un piccolo universo – quello ovattato delle élite culturali sempre più afasiche e marginali – dove l’urlo sguaiato del rancore giunge smorzato e viene percepito con aristocratico fastidio. Fuori dai cenacoli attempati nei quali la borghesia intellettuale si aggrappa ostinatamente alle tende del passato, infatti, è cresciuta la steppa del malcontento in cui vagano migliaia e migliaia di famiglie che vedono crescere i giovani senza la prospettiva di un lavoro decente e che per questo sono costrette a sostenerli con le loro magre entrate. In questa landa sconosciuta a una sinistra tesa esclusivamente all’autoconservazione del suo ceto politico – il più sciagurato del dopoguerra - è maturato il trionfo dei Cinque Stelle, che già potevano contare sul sostegno dei ragazzi e che ora hanno conquistato anche i padri e le madri.
Il Pd, dal canto suo, ha gradualmente abbandonato l’accampamento dei progressisti per trasformarsi nel bunker dei conservatori, impermeabile alle scosse che avevano annunciato il disastroso terremoto del 4 marzo. Soprattutto in Campania i segnali d’allarme non erano mancati: a Napoli c’erano state ben due primarie segnate da imbrogli di vario tipo e altrettante elezioni comunali perse (l’ultima addirittura con l’11 per cento dei voti) senza nemmeno arrivare al ballottaggio; l’esito del referendum, poi, era stato catastrofico anche nelle zone ritenute «sicure». Eppure nulla era cambiato. E alla fine il lanciafiamme, vagheggiato (e mai usato) da Renzi per azzerare il gruppo dirigente, l’hanno imbracciato gli elettori cancellando la decrepita nomenklatura del partito. Non è bastato imbellettare le troppe candidature di apparato con il make-up di Paolo Siani e Marco Rossi Doria, persone dabbene innestate troppo tardi su un albero essiccato. Così come in Puglia non ha pagato l’estemporanea linea di confronto con i grillini disegnata da Michele Emiliano: meglio il protagonista della «spalla», funziona così.
La verità è che sono radicalmente mutate le categorie della politica senza che i Democratici se ne rendessero conto: il senso d’appartenenza, i feudi elettorali, i notabili locali capaci di raccogliere consenso sempre e comunque, sono reperti archeologici ancora utili, forse, per una consultazione amministrativa ma non per una sfida nazionale. La dimostrazione più lampante di questa rivoluzione giunge dal tracollo di Piero De Luca, soltanto terzo nella Salerno che fu il regno indiscusso del padre: i voti non si trasmettono per via ereditaria, come era consuetudine una volta. È necessario un legame solido con i territori, un rapporto che consenta di respirare la stessa aria della tua gente e non quella artefatta dei clientes , di valutare il curriculum delle persone e non la loro dote elettorale: questo va fatto a 360 gradi, di giorno in giorno, e non con qualche maquillage realizzato all’ultimo minuto.
Renzi, per opportunismo e insipienza, non ha voluto rifondare il Pd nel Mezzogiorno: ha lasciato l’apparato ai signori delle tessere pensando che il governo del Paese fosse la panacea dei mali e ora paga il più gravoso dei pegni. Anzi, alla luce delle dimissioni postdatate annunciate ieri pomeriggio, rischia di farlo pagare all’intero partito, ormai preda dell’ennesima guerra intestina che stavolta, però, potrebbe condannarlo allo «sprofondo rosso». Ossia, all’estinzione. Vivacchia invece il centrodestra che, acquattato nelle pieghe del proporzionale, elegge un gruppo di parlamentari (tra i quali l’inquisito Luigi Cesaro) destinato ad assicurare la permanenza territoriale della coalizione in attesa di tempi migliori.
In Campania guadagna spazio Mara Carfagna che così potrà giocare un ruolo importante anche nel processo di (fatale) successione a Silvio Berlusconi. Non si poteva fare di più, probabilmente: difficile far attecchire il richiamo della flat tax (potente, al contrario, nel Nord delle imprese) dentro le periferie economiche schiacciate dalla disoccupazione. Ma è proprio qui che entrano in campo le cause del trionfo ottenuto dai Cinque Stelle: il rancore sociale e la paura del futuro hanno trovato un efficace anestetico nel reddito di cittadinanza, una proposta che ha avuto effetti deflagranti sugli equilibri elettorali proprio perché incrocia quell’ansia di presente, di tutto e subito, che affanna il respiro del Mezzogiorno.
Grazie a quest’idea, il Movimento da oggi è il portavoce del Sud in Parlamento, una sorta di Lega meridionale che può contrapporsi a quella di Salvini o diventarne l’alleata. Strano destino per una formazione che, nel suo programma, nemmeno una volta cita la parola «Mezzogiorno». Attenzione, però: il credito concesso a Di Maio e compagni non avrà una lunga scadenza. Le rendite di posizione sono esaurite, appartengono a un’altra era geologica. Toccherà ai grillini, se saranno chiamati al governo del Paese, dimostrare che non si è trattato di un bluff. Certo, bisognerà attendere un bel po’ visto che le trattative romane saranno lunghe ed estenuanti, tanto più dopo le dimissioni a doppio passo di Renzi. Ma l’investimento di fiducia fatto dal Sud — a torto o ragione — in un progetto di riequilibrio sociale molto controverso ci dice, comunque, che la politica non è morta. È soltanto cambiata. Come il mondo che abbiamo davanti.
6 marzo 2018 | 08:02
© RIPRODUZIONE RISERVATA