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A Dresda, dove si combatte la demenza con la Ddr

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Una casa di riposo stimola la memoria degli anziani con oggetti della Germania Est appartenuti alla loro giovinezza. Siamo andati a trovarli ed è stato un bel viaggio nel passato



DRESDA. È iniziato tutto con un motorino. Un vecchio Troll bianco e rosso degli anni 60 con il bauletto in pelle, una sorta di Lambretta della Germania Est. Lo avevano rimediato in un mercatino dell’usato e piazzato nella sala del cinema, in onore del film della Ddr programmato per quella sera. I vecchi erano entrati alla spicciolata, apatici, svaniti. Ma prima di sedersi sulle sedie di plastica qualcuno era rimasto inchiodato davanti al motorino. Piano piano, aveva iniziato a sfiorare il manubrio, ad accarezzare la sella, a cercare la pedalina per accenderlo. E aveva cominciato a raccontare.

I vecchi della casa di riposo Alexa, nella periferia di Dresda, davanti al Troll avevano iniziato a ricordarsi. Di quando ci portavano le loro ragazze, di quando si avventuravano fuori città o delle scorribande per le viuzze della città amatissima dal Canaletto. Avevano tirato fuori episodi sepolti nella memoria che sembravano scomparsi per sempre. Sprazzi di luce, squarci nel passato di persone apparentemente condannate a morire al buio, senza ricordi.

Quel giorno di due anni fa, la simil-Lambretta degli anni 60 ha messo in moto un esperimento straordinario. Osservando le reazioni degli anziani, al direttore della casa di riposo Gunter Wolfram è venuta un’idea. Ha cominciato a girare per mercatini, ha setacciato i rigattieri attorno alla stazione, si è rivolto persino al Museo della Ddr. E, pezzo dopo pezzo, ha ricostruito una stanza degli anni 60 della Germania Est. Poi una degli anni 70. E, man mano che i malati di demenza senile ci entravano, il miracolo si compiva, si ripeteva. Cominciavano a ricordare piccole cose, piangevano, ridevano, riconquistavano pezzi di vita.

Come nel celebre Good Bye Lenin!, forse il film più famoso sugli anni immediatamente successivi alla caduta del Muro, i vecchi si ritrovavano immersi nel loro passato. E tornavano a vivere. Good Bye demenza. Siamo andati a trovarli una freddissima mattina di ottobre. Alle sette e mezza, una donna sulla settantina in sedia a rotelle, con un basco bianco e nero e gli occhi truccati come Juliette Gréco, fuma una sigaretta all’ingresso. Ci saluta con un cenno del capo, mentre ci infiliamo al ricevimento. Il direttore ci aspetta lì, camicia bianca e cravatta bordeaux, l’aria da ragazzone. «Ci dobbiamo sbrigare perché la giornata comincia alle otto» esordisce.

Ci spostiamo in una grande stanza dove dodici donne e uomini sono già seduti attorno a un ampio tavolo di legno. Quasi tutti sono affetti da forme più o meno gravi di demenza senile, qualcuno ricorda a malapena il proprio nome. Ma sembrano sereni, mentre masticano il loro pane e marmellata e sorseggiano tè e caffè, tutto servito rigorosamente in piatti originali di plastica e bicchieri colorati degli anni 60. Ogni dettaglio è curato.

In un angolo, accanto alla cucina d’epoca in fòrmica e a una stupenda stufa di maiolica verde, scorgiamo un piccolo scaffale con la scritta “Intershop”, un altro recita in caratteri anni 60 “Kaufhalle”, sono le insegne dei supermercati di allora. In vendita, marche sopravvissute alla riunificazione, dolci come il Russisch Brot o le Katzenzungen, prodotti Neukircher e gli immancabili cetriolini della Sprea. Appesa a un gancio, la tipica borsa della spesa in plastica della Ddr, a fiorellini. Di fronte al minimarket “ostalgico”, due donne siedono sui morbidi divani rossi. Davanti alle tende dalle geometrie op art, stanno finendo di prendere il loro tè mattutino.

Ci presentiamo. Tea Krumpelt, 92 anni, annuisce e si presenta a sua volta. L’altra donna sembra non capire le nostre domande, lo sguardo resta fisso su un punto indefinito nel muro. Tea, quasi senza preamboli, ci racconta di aver lavorato «tanti anni» a Bad Sonnenland, «sul lago, nel parco dei divertimenti, ha presente? Con quattro figli, però, mica potevo fumare. I soldi non bastavano mai». Scuote la testa lentissimamente, con aria di rimprovero. «Sa, mio marito era di là». Di là vuol dire a Ovest: irraggiungibile, dietro alla Cortina di ferro. L’altra donna continua a fissare il vuoto. Mormora qualcosa. Non sembra neanche avvertire la nostra presenza.

Ci interrompe un’energica infermiera dalla voce squillante: «Preferite il cinema o il gioco?». Silke Ulbricht lavora nella casa di riposo dal 2014. «Ieri abbiamo fatto una torta favolosa con le signore qui presenti, peccato sia finita tutta, altrimenti gliel’avremmo offerta!» ci sorride. Mentre chiacchieriamo con Tea, gli altri anziani finiscono di fare colazione, la grande tavola viene sparecchiata. L’infermiera ci appoggia sopra una valigia di pelle marrone dagli angoli lisi, comincia a estrarre occhiali da sole, ciabatte da mare, bottiglie piene di sabbia, cartoline, materassini sgonfi, creme solari. Li appoggia davanti agli anziani. «Oggi andiamo a fare una gita. Chi è mai stato sul Baltico, al mare? A Usedom, a Sylt, all’Hiddensee? Molto bene! La signora Vogt ha alzato la mano. Ci racconti!». Ma prima che la signora Vogt possa rispondere, dal fondo del tavolo si leva un grido stridulo: «Iiiih, chi diavolo ha messo le ciabatte sul tavolo?».

A Gunter Wolfram, il direttore, scappa un sorriso. Gli chiediamo del ritratto di Erich Honecker, l’ultimo presidente della Ddr, che abbiamo intravisto su uno scaffale. Lui ci tiene a precisare che il suo non è un esperimento nostalgico, che si è trattato semplicemente «di ricostruire degli ambienti che ricordano a questi anziani la loro giovinezza. E ha funzionato. Sembra incredibile, ma queste persone sono tornate a vivere. Sa, per noi il problema è che non siamo un ospizio, qui gli anziani stanno nelle loro stanze e sono assistiti da infermieri e personale specializzato, ma si muovono liberamente».

I malati di demenza senile sono parecchi, alcuni gravissimi. E per molto tempo il problema, nella casa di riposo, è stato evitare che i vecchi scappassero, che si fermassero nel mezzo di qualcosa per rimettersi al letto, che chiedessero sempre la stessa cosa, per ore e ore. Quando Wolfram ha cominciato a portarli nelle stanze “retrò”, dalle otto di mattina alle sei di sera, è cambiato tutto. «Abbiamo osservato che col tempo sono tornate molte facoltà totalmente scomparse» racconta, «che i pensieri ossessivi sparivano, che ricominciavano a ricordare, a parlare, persino a mangiare da soli. E la sera stanno dormendo normalmente, sono talmente stanchi. Le ha viste le loro facce! Sono più che contenti!».

L’esperimento che avrebbe fatto la felicità di Oliver Sacks, per ora, non sta incontrando la curiosità degli studiosi. «Qui non è venuto ancora nessuno della comunità scientifica. Mi sembra un peccato, abbiamo documentato tutto, ma proprio tutto. Ed è un esperimento replicabile ovunque. Qui fa notizia, ovviamente, perché ricostruiamo ambienti di un mondo che non c’è più, quello della Ddr. Ma il punto è semplicemente quello di trovare le leve giuste per interessarli di nuovo alla vita».

Il trucco, puntualizza Wolfram, non è tanto immergerli in ambienti anni 60 o 70: «Non vogliamo imbrogliare nessuno, entrambe le stanze sono affacciate sull’esterno, e sull’oggi, attraverso enormi finestre». Lo scopo è risvegliare i ricordi attraverso determinati stimoli esterni. «Il mio motto è che le mani ricordano cose che il cervello ha spesso dimenticato. Ecco perché le loro giornate sono piene di attività pratiche. Faccio un esempio. La stragrande maggioranza dei pazienti sono donne. Le abbiamo invitate, ad esempio, a fare la soljanka, la famosa zuppa russa che nella Ddr era molto popolare. Ma se avessimo detto in astratto “Vi ricordate come si fa la soljanka?”, probabilmente non

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