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È l’emergenza più grande dell’Africa: 1,8 milioni di persone in fuga dalla guerra. Nel campo dell’Unhcr al confine ugandese , lo scrittore Khaled Hosseini ha incontrato le famiglie, tra speranza e nostalgia
Io e la rifugiata Gladys in viaggio nella solidarietà
KHALED HOSSEINI
OSSERVANDO Gladys, una giovane profuga del Sud Sudan mentre sfoglia un logoro album di vecchie foto di famiglia, la mente mi riporta agli anni della mia giovinezza. Nel 1983, quando frequentavo il liceo, le mie responsabilità comprendevano lo studio, la manutenzione della mia vecchia Dodge e la pulizia della camera che condividevo con i miei fratelli. La mia grande aspirazione era di riuscire un giorno a vedere Springsteen dal vivo.
A diciotto anni Gladys è praticamente madre di sette figli. La guerra nel Sud Sudan l’ha costretta a farsi carico di una nidiata di fratelli e cugini più giovani. Che lei stessa si sia lasciata alle spalle l’infanzia solo di recente è un fatto che la sua famiglia sembra ignorare, e che anche lei ha irrimediabilmente dimenticato. Il suo compito è quello di assicurarsi che i bambini studino, malgrado il tragitto che separa il campo profughi di Imvepi dalla scuola richieda quattro ore di strada tra andata e ritorno. Gladys trascorre le sue giornate attingendo acqua ad un pozzo, raccogliendo legna da ardere, preparando i pasti e riassettando l’interno del rifugio di pali di legno e tela cerata che l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha messo a disposizione della sua giovane famiglia non appena questa giunse nell’Uganda settentrionale nel 2016.
Gladys sfoglia le pagine dell’album. Scorgo immagini di famiglie e case che non esistono più. Volti sorridenti emergono dal passato; un banchetto allestito in un giardino; una vecchia festa di compleanno; le celebrazioni per un diploma; picnic, matrimoni, bambini che giocano sui prati. Una foto mostra Gladys in compagnia di sua madre. Nemmeno sua madre c’è più.
Ci sediamo sul bordo di un letto dove Gladys non dorme mai. La sera vi infila quattro dei suoi fratelli più piccoli, per poi sistemare gli altri tre su un materasso posto ai piedi del letto. Lei si corica tra il letto e il materasso, sulla nuda, dura terra, tra fratelli, sorelle e cugini. Nello sfogliare le pagine dell’album Gladys mantiene una compostezza che potrebbe far dimenticare come, alla sua giovane età, abbia già conosciuto il lato peggiore dell’essere umano. Mi racconta di essere stata trascinata giù da un autobus che era stato dato alle fiamme, tra le urla di alcune donne rimaste all’interno dell’abitacolo. È stata costretta ad assistere all’uccisione di persone che conosceva, fatte a pezzi una ad una di fronte ai suoi occhi. Gladys scrolla le spalle con dolcezza, e afferma di non capire perché le sia stato concesso di restare in vita.
Ci alziamo per salutarci. Quando mi chino per infilarmi nuovamente le scarpe, lei sorride; nell’accogliermi mi aveva assicurato che non era necessario che le togliessi, e aveva accompagnato le sue parole ad un gesto timido che alludeva alla modestia della sua abitazione. Il suo rifugio tradisce la quotidianità di un’esistenza deragliata, dove ogni cosa è un simulacro di normalità: il prezioso album fotografico, qualche testo scolastico, una Bibbia logorata dall’uso, una coperta all’uncinetto, un orsacchiotto di pezza. Guardandomi intorno noto alcuni oggetti che durante i miei precedenti viaggi con l’Unhcr ho imparato a riconoscere: i “beni essenziali di soccorso”, set da cucina, taniche per l’acqua, una lampada ad energia solare — alla luce della quale la sera i bambini fanno i compiti — razioni di cibo non deperibile, un kit per l’igiene che comprende sapone e assorbenti igienici, un altro kit di beni di prima necessità. Gli elementi di base per ricostruire un’esistenza. Il rifugio è spartano, ma per Gladys è casa; il luogo dove lei e i bambini dormono, mangiano, ridono, si raccontano storie e segreti, bisticciano e fanno la pace. Sotto questo tetto hanno trovato stabilità e un senso di sicurezza.
Fuori, prima dei saluti, chiedo a Gladys qual è la sua grande aspirazione, ricordando il mio sogno di vedere “The Boss”. Spera di trovare un lavoro, «per potermi prendere cura dei miei fratelli e delle mie sorelle e assicurarmi che in futuro ricevano una buona istruzione». Ride timidamente. «Il lavoro perfetto sarebbe quello di contabile».
Tornato sulla strada sconnessa che mi allontana da Imvepi per condurmi ad Adjumani, sulla sponda opposta del Nilo Bianco, non posso far a meno di provare un senso di stupore. Per Gladys e per la sua risolutezza. E per tutte le altre Gladys che ogni giorno attraversano la frontiera per arrivare in Uganda. Più di settantacinquemila bambini sono giunti qui dal Sud Sudan non accompagnati o senza le famiglie. Una cifra sconvolgente. In tutti i posti di frontiera, i centri di accoglienza e i campi profughi che ho visitato qui in Uganda ho trovato delle aree designate appositamente per loro: i bambini non accompagnati e separati dalle famiglie. I più vulnerabili dei vulnerabili.
Dopo due ore e una pioggia battente ci troviamo sul traghetto che porta ad Adjumani. Il tramonto sul Nilo Bianco è incantevole. Il temporale è passato e gli ultimi raggi del sole rendono l’acqua scintillante. In lontananza si scorge la sagoma di un ippopotamo. Ma sulla sponda opposta, in Sud Sudan, la barbarie della guerra torna a riemergere.
Un convoglio dell’Unhcr diretto al campo di Palorinya attende di attraversare il confine. All’interno degli autobus siedono centinaia di profughi. Sono appena sfuggiti a una nuova ondata di violenza che ha sconvolto la città di Pajok. Li guardo scendere dagli autobus: sono bambini che ancora indossano le loro uniformi scolastiche, madri stremate, uomini frastornati. In un silenzio attonito si raccolgono nel piazzale nei pressi della banchina dove attracca il traghetto, in attesa di imbarcarsi. Uno degli uomini mi racconta che i soldati hanno aperto il fuoco nelle strade, negli ospedali e nelle scuole di Pajok. La gente ha lasciato tutto ed è fuggita. E chi non è riuscito a farlo — gli anziani, i malati — è stato ucciso. Le famiglie hanno trovato scampo nella boscaglia, ha aggiunto, e nel giro di qualche ora la città si è svuotata. La sua famiglia è rimasta per tre giorni senza cibo, sostentandosi raccogliendo radici selvatiche prima di raggiungere il confine a piedi. Guardandomi attorno mi accorgo che i profughi non hanno portato con sé quasi nulla. Molti di loro sono scalzi. Una giovane donna allatta il suo piccolo, che ha appena una settimana. Nei volti dei bambini che scendono dagli autobus per riversarsi in strada colgo le espressioni emblematiche della crisi dei profughi del Sud Sudan, la crisi più estesa e in più rapida crescita di tutta l’Africa. Più di 1,8 milioni di rifugiati hanno trovato scampo nei Paesi vicini, e quasi un milione di loro sono giunti in Uganda. Nella maggior parte dei casi — il sessantadue percento — si tratta di bambini. Sono spaventati, confusi, e disperatamente bisognosi di rifugio e di protezione.
Osservo i miei colleghi che interagiscono con i rifugiati appena arrivati da Pajok. Fanno loro domande e li rassicurano, spiegando loro che una volta raggiunto il centro di accoglienza troveranno cibo, protezione, acqua, un rifugio e cure mediche. Ammiro il lavoro che viene svolto qui, in prima linea. Anche se al momento l’opera svolta dall’Unhcr per l’emergenza del Sud Sudan è finanziata solo al quattordici percento. Un dato che stupisce e deprime. Questi autobus di profughi sono la dimostrazione di quanto sia urgente e necessario ricevere nuovi fondi. Anche perché qui, in Uganda, la risposta alla crisi dei profughi si basa su un modello ambizioso e visionario che merita di essere sostenuto.
Questo viaggio in Uganda è diverso dalle mie precedenti visite ai campi profughi di altri Paesi. La differenza che più salta all’occhio è l’assenza di recinzioni. Qui, grazie a una considerevole testimonianza di generosità e solidarietà, anche i privati cittadini e i proprietari terrieri, oltre che il governo, donano terre ai rifugiati. Osservando i volti stremati dei profughi arrivati da Pajok, provo un barlume di speranza nel sapere che nel giro di qualche giorno sarà loro assegnato un lotto di terreno su cui poter costruire un’abitazione di emergenza e coltivare il necessario per emanciparsi almeno in parte dagli aiuti. I rifugiati che giungono in Uganda sono liberi di spostarsi, hanno accesso alle stesse cure sanitarie e allo stesso sistema scolastico dei residenti e possono lavorare e aprire delle attività.
L’Uganda ha un passato doloroso, e sa bene che una guerra che si protrae nel tempo costringe i profughi a vivere in esilio per anni, spesso decenni. E ha imparato che l’integrazione dei rifugiati, che non vengono considerati esclusivamente alla stregua di un problema umanitario, rappresenta un vantaggio per tutti. Oltre ad essere progressista e compassionevole, la politica dell’Uganda è anche intelligente, perché contribuisce a migliorare la vita dei propri cittadini.
Prendiamo il caso di Bidibidi: un piccolo villaggio nel nord dell’Uganda che nel giro di soli nove mesi è diventato uno dei più grandi campi profughi al mondo, con più di 272.000 occupanti. Prima dell’arrivo dei rifugiati qui non esistevano scuole, né centri di assistenza sanitaria, né strade facilmente percorribili. Siedo all’ombra di un albero in compagnia di un coltivatore ugandese. Si chiama Yahaya, e mi racconta che in passato i suoi figli più piccoli non ricevevano alcuna istruzione perché la scuola elementare più vicina si trovava a una distanza proibitiva. Per portare i raccolti al mercato e tornare a casa ci volevano giorni, aggiunge. Oggi invece, grazie alle nuove strade, bastano poche ore. Yahaya ha donato dei terreni, sia attraverso l’iniziativa del governo che direttamente ai rifugiati che ne facevano richiesta. In questa coesistenza funzionale, resa possibile dalla politica ugandese verso i rifugiati, colgo l’efficacia di una generosità pragmatica.
Prima di lasciare Bidibidi ho avuto anche occasione di assistere al potere della generosità umana. Aisha ha occhi grandi e gentili e una corporatura snella. Ha ventinove anni. Sua marito l’ha abbandonata, lasciandola con due figli maschi di tredici e cinque anni. Insieme a loro e a due giovani nipoti lo scorso agosto è fuggita dal Sud Sudan. A un posto di blocco, mi racconta — mentre la sua voce si colora di un impercettibile fremito di indignazione — è stata obbligata ad inginocchiarsi. Alcuni soldati le hanno puntato la canna di una pistola alla testa, mentre lei teneva stretto il figlio più piccolo. La morte era solo ad un soffio da lei. Le hanno portato via del denaro e quasi tutto ciò che aveva, e lei e i bambini sono arrivati nel nord dell’Uganda quasi con nulla. Dopo aver ricevuto dall’Unhcr un rifugio di emergenza, Aisha ha iniziato a costruire una dimora più permanente preparando da sola mattoni di fango e un tetto fatto con l’erba raccolta tra la boscaglia, una cesta al giorno. È stato un lavoro duro, racconta, ma voleva assicurarsi che i bambini avessero un riparo, del cibo, degli abiti e che andassero a scuola.
In seguito Aisha accettò di prendere un minore in affido, e i suoi ragazzi erano felici all’idea di un nuovo compagno di giochi. Incontrando per la prima volta la bimba, si accorse però che questa aveva la parte destra del corpo paralizzata ed era completamente incontinente. Sua madre l’aveva abbandonata. Le fu spiegato che la bambina non era in grado di mangiare, né di mettersi a sedere o di parlare, e richiedeva cure e attenzioni costanti. Dopo aver trascorso una notte intera raccolta in preghiera, Aisha prese la sua decisione. «Adesso le voglio bene come a una figlia. Ma la sua condizione non è facile», spiega. «E non è facile che qualcuno l’accetti. Io però non posso darmi per vinta. Qualcuno doveva pur darle una casa e un luogo sicuro dove vivere». Incerta tra tre nomi — Gloria, Mercy e Grace — Aisha ha deciso di chiamare la piccola Mercy, “misericordia”. Una scelta poetica e toccante, che lei spiega accompagnando le sue parole con un sorriso.
Eppure, per quanto provi gratitudine nei confronti dell’Uganda, se gliene fosse data l’opportunità Aisha preferirebbe tornare a casa. Gladys mi ha confidato la stessa cosa. E altrettanto ha fatto David, un ex dirigente scolastico del Sud Sudan che oggi insegna ai rifugiati e ai bambini ugandesi nella scuola primaria di Nyumanzi. Lo incontro in un momento di pausa di fronte a un’aula vuota. E mentre parliamo di scuola lui si interrompe e i suoi occhi si riempiono di lacrime. «A volte mi domando perché Dio abbia fatto di me un rifugiato», afferma con un filo di voce. «Per quanto tempo dovrò vivere da rifugiato? Quando potrò tornare a casa e aiutare la mia gente?».
Tutti i profughi che ho incontrato — in Uganda, in Ciad, in Giordania, in Iraq e persino in Afghanistan, dove sono nato — hanno espresso il medesimo desiderio. Nulla può sostituire il profondo legame che ci lega al posto in cui siamo nati. Ma quando tornare nel proprio Paese non è possibile, il luogo in cui troviamo un senso di appartenenza, dove le persone non dicono, guardandoci, che “non sei di qui”, diventa la nostra casa. Oggi nel mondo troppe voci dicono ai rifugiati che non sono voluti.
Ripenso a un momento bellissimo che ogni giorno si ripete presso il centro di raccolta di Koluba, dove i rifugiati, dopo aver ricevuto un pasto caldo, vengono sottoposti a un controllo medico e ricevono un lotto di terra. Ogni mattina un rappresentante dell’ufficio del primo ministro ugandese prende in mano un microfono e si rivolge a loro con un sorriso schietto. «Siete arrivati qui per garantire la sicurezza dei vostri figli», dichiara. «Loro rappresentano la speranza e il futuro. È nostro desiderio che qui, nella vostra nuova casa, voi possiate realizzare i sogni e le aspirazioni dei vostri figli. Benvenuti in Uganda».
Per ulteriori informazioni o per sostenere l’operato di Khaled con l’Unhcr visitate: unhcr. org/ khaledshelter ( Traduzione di Marzia Porta)
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Un album di foto, una Bibbia, un orsacchiotto ogni oggetto diventa simulacro di normalità Due terzi degli arrivi sono bambini: senza famiglia, spaventati e in cerca di protezione
FOTO: © UNHCR
NEL CAMPO DI IMVEPI
Khaled Hosseini con i bambini sud-sudanesi nella scuola del campo per rifugiati dell’Unhcr di Imvepi, in Uganda. L’Uganda ospita circa un milione di rifugiati sud-sudanesi
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