CULTURA
Così il lavoro manuale degli autori sulla pagina ha generato le opere più belle della nostra letteratura
ALBERTO ASOR ROSA
Un libro fuori della norma saggistica più abituale è “Scritti a mano”, di Matteo Motolese (Garzanti, pagg. 260, euro 20), apparso recentemente. Sul frontespizio compare anche un lungo sottotitolo esplicativo, che per ora mi risparmio, vi risparmio, preferendo affrontare la complessa materia con i miei mezzi. Ma, appunto, cosa vuol dire innanzi tutto quello strano titolo? Motolese, che è fondamentalmente un linguista di scuola romana, sceglie, studia, minuziosamente descrive, ricostruisce e interpreta una serie di testi capitali nella storia della letteratura italiana, dei quali esistono esemplari in tutto o in parte autografi dell’autore. I testi e i loro autori sono quanto di più elevato si possa riscontrare nella nostra storia letteraria e culturale, ma anche, come io non mi stanco mai di ricordare e di sottolineare, nella storia della nostra genesi e identità nazionale. Sono: il Decameron di Giovanni Boccaccio, il Canzoniere (meglio: Rerum Vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca; la Grammatica di Leon Battista Alberti; il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei; le Operette morali di Giacomo Leopardi; Satura di Eugenio Montale; Il nome della rosa di Umberto Eco (come è noto, di Dante non esistono autografi). Sono sei secoli di esplorazioni e rinnovamenti, di scoperte e di geniali illuminazioni (il codice del Decameron di mano del Boccaccio è del 1370;
Il nome della rosa appare a stampa nel 1980).
Motolese studia questo eccezionale campionario in maniera che da ognuno di quei testi, attraverso l’itinere che parte dalla prima stesura e arriva alla scelta definitiva, risulti con estrema chiarezza il processo creativo, la genesi intellettuale – immaginativa, che lo caratterizza e lo rende diverso (e superiore!) rispetto a tutto il resto del mondo. Mi verrebbe di dire: in sé e per sé si tratta di un’indagine eminentemente linguistica e paleografica; la quale però assume a un certo punto i connotati e l’operatività di una nuova forma di “critica storica”, in non pochi casi e momenti più attendibile ed efficace di quella che molto spesso viene esercitata da chi lavora professionalmente in questo settore.
Motolese non si limita infatti a studiare e descrivere il processo verticale che dal primo testo manoscritto porta al testo definitivo, manoscritto o stampato che sia. Ma allarga lo sguardo all’intero percorso scientifico, umano e personale, attraverso il quale quei risultati vengono raggiunti. In una sorta di andamento tridimensionale: c’è innanzi tutto la ricostruzione storica e genetica, comunque prevalentemente fattuale, del testo, manoscritto o stampato che sia (con le eventuali intersezioni fra le due forme): poi (o contestualmente, come pare più opportuno all’autore) c’è la narrazione, quanto mai vivace e creativa, delle occasioni, modalità, luoghi, situazioni bibliotecarie nei quali e attraverso i quali la sua ricerca si è dispiegata e concretizzata; infine c’è una puntualissima, scientificissima, ma al tempo stesso affascinante e narrativa, analisi delle varie forme linguistiche, stilistiche, culturali e ideali, di cui ogni singolo testo è portatore, con una particolare attenzione rivolta ai mutamenti e alle innovazioni. Dico tutto questo per un motivo che a questo punto m’interessa moltissimo chiarire. Questo non è un libro per specialisti. Per argomenti, dimostrazioni e scrittura (dell’autore, s’intende), potrebbe essere considerato un efficace introibo all’esaltante frequentazione da parte di chiunque, del livello letterario più alto. E cioè, se è così che è avvenuto, se le cose sono andare proprio così, allora si può, risalendo quel percorso, arrivare veramente a capire e gustare quel che di primo acchitto sembrerebbe difficile o addirittura impenetrabile.
Dovrei ora entrare di più nel merito: ricordando, magari, come Boccaccio, vecchio e stanco, intraprenda l’immane fatica di assicurare al testo del Decameron la sua veste più definitiva, copiandolo diligentemente tutto, non senza qualche visibile ripensamento, illustrandolo per giunta con divertentissime e spiritosissime vignette dei suoi personaggi (è il Codice Hamilton 90 di Berlino, su cui si basa l’edizione critica di Vittore Branca, 1976, quella su cui attualmente leggiamo la leggendaria raccolta di novelle in tutte le possibili edizioni del mondo); o come Giacomo Leopardi, malato e tormentato dalle febbri, e ormai vicino alla morte, torni a intervenire, tenacemente e testardamente, sul testo delle Operette morali, di cui un editto dei Borboni, regnanti a Napoli, ha interdetto, su ispirazione della Chiesa, la pubblicazio- ne («la mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto…»).
Non potendo farlo, preferisco concludere con alcune osservazioni, in cui l’emozione della scoperta si mescola per me con la commozione del ricordo, e con un auspicio.
Il primo caso: Il nome della rosa di Umberto Eco. Quando il libro apparve nell’80, fui uno tra i pochi lettori professionali ad osservare come quell’opera introducesse sulle nostre lettere un nuovo paradigma d’invenzione narrativa, reso attivo e creativo, per giunta, da una formidabile capacità di divertimento e di riso. Ora Motolese, introdotto nell’archivio Eco soltanto pochi mesi dopo la sua scomparsa dalla generosità della vedova Renate e del figlio Stefano, ha cominciato a sondare l’incredibile molteplicità delle sorgenti inventive e delle scelte narrative, da cui il Grande Professore è stato stimolato e quel libro è nato: tutta roba scritta non casualmente a mano, come nella tradizione, altro che macchina da scrivere, altro che computer... Ora, evidentemente, si tratta di tornarci su e di andare avanti. L’auspicio: come lasciano intendere alcuni fondamentali contributi (per esempio, l’edizione delle sue opere nei Meridiani Mondadori ad opera di un gruppo di illustri studiosi milanesi), dietro e sotto l’opera narrativa di Italo Calvino s’intravvede una vera miniera di “scritti a mano”, preludio, arricchimento e formidabile strumento interpretativo del Calvino stampato, che conosciamo. Quando e come ci si calerà in quella miniera per estrarne fino in fondo l’esaltante vena d’oro?
GIOVANNI BOCCACCIO
Ormai vecchio e stanco, il grande autore del Decameron decide di copiare a mano, in prima persona, l’intero suo testo, illustrandolo anche con delle vignette
GIACOMO LEOPARDI
Tormentato dalle febbri, il poeta di Recanati malgrado lo sforzo interviene fino all’ultimo di proprio pugno, testardamente, su parte delle sue Operette morali
UMBERTO ECO
Niente macchina da scrivere né altri, più sofisticati, strumenti che all’epoca cominciavano a diffondersi: Il nome della rosa è stato scritto a mano dal suo autore